Parlavamo alcuni mesi fa seduti davanti ad una birra, una « blanche » ben belga, in una brasserie di Bruxelles : l’argomento era la penitenza, sì sì proprio la penitenza!
Non ricordo più bene come ci si era incappati. Mi ero trovato con due amici religiosi, molto colti e per me giovani (sulla quarantina). Perdipiù consacrati ambedue con i tre voti consueti di obbedienza, castità e povertà. I miei due interlocutori, manager tecnici in due imprese internazionali, allo stato dunque completamente laicale come il loro ordine impone, mi interrogavano sul problema giust’appunto della confessione. Da ponte aveva fatto una mia battuta sulla banalizzazione del sacramento, da parte anche di confessori che liquidano generalmente l’assoluzione finale con l’ormai consueta «penitenza» attraverso la recita dei tre fatidici pater-ave-gloria.
«Non come Tannhäuser – avevo commentato – il quale come penitenza, per i suoi molti peccati non solo carnali con donne e fanciulle, dovette intraprendere un lungo pellegrinaggio pieno di pericoli dal nord della Germania a Roma…». L’improvviso silenzio e i visi attoniti dei miei due amici mi fecero insistere con un cenno sull’opera di Wagner cui facevo riferimento, sul suo «Monte di Venere» che ancora una volta, nel peregrinare, aveva attirato nelle sue dissolutezze il mio eroe tedesco a loro sconosciuto…
Piscis: non ne sapevano nulla. Anche Wagner era solo un nome conosciuto ma alquanto vago!
Nell’estate del ’49 avevo cinque anni e zio Ciccillo, un allora ventenne, si preparava ad entrare nella banda filarmonica dove mio padre era timpanista e mio nonno maestro concertatore e direttore.
Zio Ciccillo si esercitava al corno, ripetutamente e con esplicito diletto, in casa nostra nel lungo assolo della sinfonia del Tannhäuser. È il primo ricordo che ho del mio rapporto con la musica classica.
Da allora, grazie soprattutto alla tradizione musicale vispa dei rami dei miei genitori, son cresciuto quasi immerso nella grande musica. Potrei anche dire che ho messo le basi persino del corteggiamento, mai interrotto in quasi cinquant’anni a mia moglie, in un palco della Scala di Milano. Ci eravamo andati per assistere ad una rappresentazione della Madama Butterfly… Le spese di questa passione divenuta progressivamente quotidiana nell’ascolto della musica colta, fortunatamente indotta dalla famiglia, per radio, televisione e in ogni occasione (perfino in macchina), sono state le canzonette. Non le ho mai veramente odiate, ma sempre mi sono apparse come espressioni nel loro genere minore. Quasi sempre.
Così, i miei due amici sebben di raro spessore culturale e spirituale, mi avevano precipitato nel vuoto di una discontinuità propria della trasmissione della sapienza umana nelle ultime due generazioni.
In effetti, alla musica classica erano giunti sostanzialmente da adulti, solo inizialmente del resto, su indicazione pedagogica alla categoria della bellezza da parte del fondatore del loro ordine religioso.
Ci sono momenti e occasioni, come questo del Tannhäuser, che esemplificano in modo compiuto lo scarto, la rottura, il fallimento nella trasmissione di civiltà tra le generazioni, soprattutto le attuali travolte dal nuovismo nichilista, l’idéologia contemporanea che si picca di inventare tutti i valori, identificando nei precedenti quelli da seppellire assolutamente. I giovani (e non solo), a partire dagli anni ’50-’60, sono stati educati – meglio sarebbe dire allevati – in un vuoto esistenziale e di cultura di cui il modernismo è diventato il totale surrogato. Anche nella musica. L’interminabile agonia della musica classica, malgrado le cure intensive e molto sporadiche prodigate, è cominciata con l’avvento delle abitudini dello spettacolo della società massificata. Quindi dale quantità gigantesche della musica pop emessa massicciamente fino a invadere, per molte ore al giorno (!), l’intelletto e l’udito di tutti, in ogni luogo.
Ci si può chiedere se ancora rimanga disponibile qualche anfratto recettivo per parlare all’anima residuale che comunque continua ad ancora esistere in ogni essere umano.
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