La prendo un po’ alla larga. Mia moglie ed io abbiamo preso l’abitudine di arrivare in chiesa verso le 18 quando la messa comincia alle 18h30. Già da molto prima, sull’altare, c’è illuminata la grande Ostia consacrata esposta per l’adorazione ai fedeli: non più di una ventina che più o meno lungamente rimangono fin da prima – meglio di noi – in silenzio ad osservare e meditare sul Mistero centrale di tutta la Chiesa. Quello della reale presenza di Dio, in carne, nel biancore irreale illuminato anche dall’apposito faretto: Dio è con noi, sempre. Nello stesso silenzio, il sacerdote conclude la lunga adorazione pomeridiana con la benedizione dei fedeli che, nel frattempo, arrivano per la celebrazione dell’Eucarestia, anch’essa al centro – si sa – della messa. In questo atto liturgico di una semplicità sublime ed estrema, pochissime e molto misurate parole vengono pronunciate dal celebrante, nella consacrazione, in ricordo delle stesse due piccole frasi pronunciate da Gesù all’ultima cena.
Sono nato a Lanciano, a qualche chilometro dal mare Adriatico all’altezza di Roma. Lì, nell’anno 700, avvenne il primo miracolo eucaristico: un monaco celebrante, che dubitava della reale transustanziazione (è così che si dice la reale trasformazione del pane e del vino in quella del corpo e del sangue di Cristo), vide sanguinare e trasformarsi l’ostia in carne. Fino ad otto anni, prima dell’emigrazione della mia famiglia in Lombardia nel nord d’Italia, mia nonna, mia madre e mia zia mi portavano con loro a volte a visitare i cimeli del miracolo nella chiesa di san Francesco, in centro città. Ho quindi sempre avuto almeno presente questa verità dogmatica, carnale e fondante della realtà trinitatia del Corpo Mistico. Nella vita e nella salvezza umana.
In questo periodo nel quale, in occasione del Sinodo romano, si parla molto della pratica della Carità nei confronti di tutti noi peccatori, e in special modo dei divorziati risposati, riflettevo sull’ordine della diade oggi proposta e riproposta: Verità-Misericordia. Cosa viene prima e cosa viene dopo?
La questione non è di lana caprina: è su questa precedenza che la Chiesa tutta è apparentemente divisa.
I teologi perdoneranno la mia ignoranza e il mio conseguente semplicismo – sono solo un piccolo imprenditore – ma mi pare indefettibilmente che la pratica della misericordia possa esistere solo dopo che la verità di fede sia stata affermata e che il peccato umano l’abbia trasgredita.
Per esperienza professionale, poi, so che se non si è letto e ben capito un testo, non si può tradurlo. Meditando a lungo davanti al biancore dell’Eucarestia, vien però fatto di pensare anche che la misericordia sia già intrinseca nella stessa verità e nel suo messaggio di amore. Il che, del resto, è molto indotto dalla perfetta confusione con cui i due termini vengono usati nell’indifferente priorità attribuita all’una o all’altra da parte di moltissima stampa e anche di molti padri sinodali.
Mentre la cultura cristiana – che scaturisce sempre dal logos – si fonda sulla sua capacità di distinguere e di priorizzare sul diabolico relativismo nichilista, ciò che oggi si sta producendo, continuamente e immancabilmente, è il paciugo sincretico. Quello falso e infingardo del volemose bene.
È in questo minestrone di buoni sentimenti che, di fatto, si sta cercando di affogare il sacramento del matrimonio. Si cerca di avvicinare il divino al quotidiano umanoide e non viceversa!
Meno male che con la chiusura provvisoria del Sinodo si è aperta, quasi senza soluzione di continuità, la beatificazione di papa Paolo VI che ha emanato l’enciclica forse più impopolare della storia : l’Humanae vitae. Il cristianesimo non è una banale teoria intellettualistica o moralista, pseudo-democratica, che cerca di accaparrarsi con un consenso demagogico il più possibile gran numero di cristianucci residuali.
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