Quando si giunge a non aver più “impegni quotidiani” in una vita di 24 ore indifferenziate…
Da quando mia figlia Odile ha ripreso la direzione e la gestione della mia azienda di servizi multilingui nella comunicazione marketing, la mia vita è cambiata radicalmente: non ho più impegni imperativi e costanti di lavoro! Avendo cominciato a lavorare in fabbrica, come apprendista elettro-meccanico, nel 1959 a quindici anni, dunque da ben più di 50 anni lavorativi (in ditta riparavamo i moltissimi tram che ancora circolano a Milano), mi ritrovo a quasi 75 anni felicemente “rottamato” volontario. Mia moglie mi ripete spesso che la mia rottamazione l’ho in realtà quasi iniziata una decina di anni fa, in corrispondenza dell’esplosione della crisi economica. Ma anche per manifeste mie inadeguadezze ormai professionali e fisiche: insufficienze informatiche più alcune operazioni (alla prostata e con 4 bypass al cuore). Mia figlia, invece, laureata a Oxford, informatichina e internauta già da bambina, con in bocca quattro lingue parlate e scritte più una (lo spagnolo) che lei considera solo iniziale, è perfettamente adeguata al compito.
Cosa mi palesa che la mia vita sia così cambiata? Quella soprattutto notturna!
Verso le tre del mattino, dopo aver dormito nel primo sonno più di due ore, ho già letto qualche capitolo di uno dei due libri che tengo sempre con me. Oppure scrivo e correggo (sempre in camera da letto) il mio post del blog in preparazione bilingue: per primo redatto in francese e poi tradotto in italiano, la mia lingua madre. Guardando, per fingere di distrarmi, ogni tanto la televisione anche con la coda dell’occhio. In effetti, da più di una ventina d’anni sbircio la télé, come dicono qui in Belgio, ma avendola privata di audio. Mia moglie ha l’orecchietta per il suo ascolto che però le serve molto spesso per addormentarsi. Qui a Bruxelles, la televisione presenta non so bene quanti canali superiori al centinaio, compresi quelli soprattutto in fiammingo e in francese con almeno una doppia dozzina di altre lingue, e più del quadruplo di Paesi stranieri di emittenza, comprese le quattro principali reti italiane. Quando il ghiribizzo me lo suggerisce, infilo il mio auricolare per ascoltare la musica classica trasmessa 24 ore su 24 dal canale nerlandofono (a l’esclusione della musica atonale, per me, e non solo, inascoltabile, in quanto non autosufficiente e valida solo per accompagnare l’orrore e il disordine convulsivo del nostro modernismo epocale). O ancora passo all’ascolto, curioso di certe rare notizie negli innumerevoli telegiornali che annunciano ripetutamente gli avvenimenti, come ormai dappertutto, con i sottotitoli (per me in sovrappiù nel totale silenzio).
Regolarmente, dopo le due del mattino, faccio una ventina di minuti di cyclette: cerco così di curarmi il nervo sciatico che già mi fa parecchio zoppicare. Nel frattempo guardo lo schermo mentre pedalo e constato, sempre nel silenzio, che senza il bla-bla logorroico e spessissimo demente, la televisione sarebbe accettabile e pure molto positivamente (anche nello sport dove i molti commentatori non fanno altro che descrivere perlopiù ciò che tutti già guardano).
E se ci si accorge che la televisione è fondata non tanto sulle immagini ma sulla parola gnostica?
L’abituale mancanza di parole nel mio televisore notturno (di giorno, è sempre in casa spento d’office!) permette di economizzare il molto dannoso mal di fegato a causa delle oceaniche scemenze e bestialità proferite dai molti personaggi inevitabilmente sentenzioni e nichilisti a scaturigine dello stupidario avvilente del dover intervenire, soprattutto anche brevemente. Così la stessa afonia delle immagini parlanti mi permette anche d’immaginare criticamente quale altro destino il personaggio in questione ben inquadrato avrebbe potuto avere se si fosse rifiutato di appiattirsi al pensiero unico imposto dai programmatori sempre disperati di audience. Ai parlanti eloquenti nel cosiddetto piccolo schermo è richiesto implicitamente di piegarsi, soprattutto da molto prima (anni!), con conformismo allegramente imposto con maniera anti-democratica… Così, cercando almeno di difendermi dall’aggressività malefica del formidabile elettrodomestico diabolicamente iperefficace di cui disponga il potere politico ed economico della grande persuasione oggi onnipotente, l’altra notte ho infilato la mia orecchietta: per ascoltare quanto avrebbero dovuto dichiarare gli autori di tre libri. Volumi appena usciti e scelti dall’emissione. Non gente di sedicente e scontato spettacolaccio superficiale e volgarmente distraente. Ma si trattava nel qualcaso di scrittori, gente che fondamentalmente pensa in silenzio e sa almeno di grammatica con un minimo di logica formale (senza, non si può non solo scrivere ma nemmeno immaginare di concepire un libro).
Gente cioè usa alla necessaria meditazione della scrittura, la forma di comunicazione formalmente più rispettosa della libertà e dell’autonomia in quella possibile, chiamata comunicazione.
Ero abbastanza curioso di collegarmi, senza alcun impedimento diretto all’ ascolto, almeno di cose verosimilmente utili. Ai livelli dunque più alti, vale a dire quelli dell’ascolto non inficiato o strillato della comunicazione verbale sempre in onda. Ma della scrittura, cioè quella nella gratuità delle idee perdipiù scritte. La stessa tecnica dipendente dalla volontà del solo interlocutore attivo, interessato ai contenuti del libro o, ancor più, dai motivi dello scrivere. In altri termini, analogo al mio stesso modo scelto per comunicare quasi confidenzialmente, per esempio, con questo mio blog.
Cioè non con una modalità barbarica senza alcuna mediazione, come la televisione testimonia invece continuamente e per definizione, ma con uno strumento silenzioso in sé: il libro. In altre parole, non col metodo che esclude la dimensione principale della ricerca e della dipendenza detta escatologica, cioè delle finalità e delle origini della stessa vita. La gnosi già pagana, e ora televisiva, non ha mai riconosciuto altro che la materialità dell’esistente. Come pure la negazione della sua essenza, e la dimenticanza del suo essere. Il quale certamente e sistematicamente porterebbe all’interrogativo sull’Essere supremo: quindi del Dio vivente. Giustappunto, ecco la parola “diabolica” e significativamente tabù nella teleologia pratica e tacita della televisione, vale a dire nelle sue finalità!
La benevolenza nei confronti dei personaggi più umani e talentuosi: ma capita loro di pregare?
Ho ascoltato così attentamente tutte le parole e i contenuti sia dei tre autori che, come al solito, hanno anche dovuto spiegare il loro libro (!), ma ho ben udito i critici letterari collegati da tre città per giudicare gli scritti. Ed infine mi sono succhiato pure le battute sommarie di cittadini comuni scelti a caso in libreria. Non un solo intervento, nemmeno uno, che abbia sfiorato la risposta all’attesa generica per cui mi ero messo all’ascolto – oltre che alla visione sempre distratta e artatamente sorda – dell’elettrodomestico reso tipicamente e specificatamente sempre più gnostico.
Ho dovuto ammettere concludendo, come praticamente quasi sempre, con le stesse considerazioni deluse e disperanti, non solo per la televisione. A fronte di analisi non prive anche di giudiziose e a volte pure di geniali intuizioni, mai ritrovo quella inconfondibile ed essenziale questione – e nemmeno il suo pre-sentimento – che mi induce e mi fa iniziare le mie preghiere quotidiane delle Ore (della Chiesa). Esse sempre iniziano con l’invocazione, a partire dalle Lodi mattutine fino alle Compiete della sera: “Oh Dio vieni a salvarmi”.
Così finisco sempre col chiedermi se codesti autori o grandi personaggi, da me comunque ammirati, non fosse che per la loro appartenenza se non tra i migliori, almeno tra gli scelti nella selezione detta negativa, non facile cui si sottopongono.E poi mi chiedo, quasi subito se non contemporanemente, qual è il rapporto tra le loro migliaia di righe spesso scritte ammirevolmente, con questa domanda-supplica di preghiera e con siffatta originaria implorazione, insopprimibile dell’animo umano.
Quante volte nella mia vita, del resto, mi sono posto quest’interrogativo contenente tutto il dubbio sulla mia esistenza e sulla sua trascendenza! E della cosa che più ammiro, la cultura cristiana, quella alla base della nostra civiltà che esclude così tranquillamente, come in un oblìo quasi naturale, il senso profondo di tanta esistenza: quello cioè conseguente al “dimenticare di aver anche dilmenticato”, come lo scrive il grandeStefano Fontana, direttore della Dottrina Sociale della Chiesa, nel suo ancora meraviglioso ultimo libro sulla gnosi (Fede &Cultura).
E se si vede il proprio umano sterilizzato dal suo bisogno ontologico, quindi naturale, di salvezza?
“Ma perché scrivono?”, era questa la domanda di un grande scrittore cattolico. Per ben capire questo radicale e permanente interrogativo, occorre percepire e definire il concetto di “disponibilità” e soprattutto di indisponibilità per l’uomo. Per esempio, l’aborto che è sempre un assassinio – indipendentemente dalle circostanze incombenti e dalle motivazioni soggettive addotte – costituisce una indisponibilità all’umano: esso è possibile come peccato gravissimo ma esterno alla realtà ontologica, naturale della persona. La cosa è anche una evidenza intuitiva! Se il fatto di scrivere non serve, non è in ultima analisi funzionale a s-coprire l’umano, a togliergli il sempre traslucido velo che nasconde quasi completamente il suo contenuto fondante, a non rivelare la sua vera natura, perché scrivere?
Se la letteratura è solo descrivere, narrare, senza mettere finalmente in rilievo ciò che effettivamente è l’umano inchiodato alla sua verticalità, se non si indicano cioè le indisponibilità per l’uomo, vale a dire il senso e la bellezza della sua esistenza che gli deriva sempre dalla Grazia a lui intrinsecamente esterna, o – al meglio – in cooperazione col Creatore, perché scrivere?
Se lo scrivere non mette in évidenza, ancora per esempio, l’altrimenti inimmaginabile pienezza e bontà del matrimonio cristiano, come veramente descrivere e celebrare le meraviglie della Famiglia? La vera intelligenza della scrittura è misurata dalla capacità di ricondurre alla verità dell’Essere, della sua vera natura. Altrimenti è solo descrivere, magari in modo eccelso, l’illusione della propria disponibilità sedicente illimitata e fatalmente narcisista: cioè fare solo l’esercizio detto dell’ermeneutica, non solo senza rispondere agli interrogativi ultimi e primi (l’alfa e l’omega!) ma – al meglio – arzigogolare intorno all’esistente fino a vantarsi di ben “ermeneuticare”!
La grande letteratura, ovviamente, è molto di più: occorre sposare l’intelligenza teleologica, cioe è quella legata indissolubilmente allo scopo, al senso delle cose, con la meraviglia stupita dell’analizzare, anche nei casi più apparentemente banali della vita… La vera letteratura, la vera poesia conducono ineluttabilmente alla verità ontologica – con talento créativo, naturalmente – alla sua globale celebrazione fino all’esplicito. Fino ad evidenziare soprattutto il limite di globale di dipendenza umana, nella sua totale libertà, perché vocazionale. La quale, riconosciuta nella quotidiana continuità, rende l’uomo un gigante nel suo illimitato ed escatologico bisogno di salvezza.
Fino anche all’estrema, intrinseca e semplice indisponbilità del Dio vivente. Il quale non può essere che l’oggetto dell’invocazione accorata ed esplicita, oppure anche implicita, dell’”O Dio, vieni a salvarmi”.
È in questo senso che ora cerco di vivere la mia volontaria e ultima (!) rottamazione.
Grazie Franco. !! sempre TOP ! ti leggo sempre, ogni volta ricevo un tuo scritto e lo diffondo agli amici.< A presto ! ciaoo
Invecchiando si perdono molte cose che, prima, ignoravamo di avere.
(Carlo Gragnani)