False estetiche e testimonianza imprenditoriale (Novella)

  • Caro Luigi, ti sono amico da almeno mezzo secolo anche se non sono d’accordo con il tuo credo cattolico, perdipiù giussaniano. Ho letto pure i tuoi due ultimi racconti del 2016 e mi sono ancora chiesto perché scrivi di cose letterarie, a mio parere kitsch. Capisco i tuoi libri e i testi nel tuo blog, con qualche centinaio di lettori assidui cui comunichi le tue scelte esistenziali e religiose, ma cimentarti in racconti di pseudo letteratura – da più di vent’anni – non lo condivido proprio. Ti parlo fuori dai denti, come mi avevi insegnato già alla fine degli anni ’60, descrivendomi, allora, il fondamento della vera amicizia.
  • Tu lo sai caro Carlo, ti ho sempre riconosciuto la tua fedeltà amichevole, per me valore quasi assoluto della relazionalità gratuita, cosa massima di questo mondo. Dico però “quasi” perché ne affermo almeno implicitamente una superiore. Come tu sai, parlo sempre della libertà come valore primo umano. Valore superato ma incluso in quello del mistero trascendente della cristocentricità salvifica. Del resto, la mia concezione, come dici anche tu, giussaniana della cattolicità è fondata sull’unità dei valori autenticamente umani con quelli trascendenti. Con la visione cattolica “incarnata” dalla Trinità nella Crocefissione e nella Resurrezione.
    Così possiamo parlare liberamente, senza timori di rispetto cosiddetto umano: ti ascolto in tal modo “religiosamente”.
  • Credo di non capire veramente cosa tu intenda per “mistero trascendente”, anche se lo trovo coerente con quanto ripeti da almeno una quindicina d’anni, allorquando ti sei rimesso a credere in Dio in modo, diciamo così, “forsennato”.
  • Credere nella Trinità non può essere che totalizzante. Parlami pure della mia, come dici tu, letteratura kitsch.
  • Ti dirò in sintesi l’essenziale. Prima di tutto, le tue novelle, soprattutto le ultime, sono dozzinalmente dimostrative: esattamente il contrario di ciò che viene definito, non solo nell’ultimissima modernità – in tutto il pensiero letterario.
  • Continua pure senza remore…
  • Poi, proprio a causa di questa finalizzazione dimostrativa, si tratta di una scrittura che già ti ho annunciato come piuttosto pacchiana. Così com’è sempre la letteratura di terz’ordine. La finzione col fervorino finale non può che essere squallida e intrinsecamente prefigurata, scontata. Inutilmente preannunciata.
  • Continua, la cosa mi interessa enormemente, sia in generale che in modo specifico per me.
  • Dal punto di vista più strettamente estetico, tutta la tua struttura narrativa è così sostanzialmente onnisciente: l’io narrante dei tuoi scritti è quasi sempre quello di un dio quotidiano e astratto che conosce tutto e descrive, soprattutto con la consapevolezza di chi è alle origini dei destini di tutti i personaggi, attraverso i comportamenti stereotipati di ognuno, nella pura oggettività.
  • Anche questa della mancanza di libera soggettività dei vari protagonisti, non mi era del tutto sconosciuta. Anzi per niente.
  • Tralascio, naturalmente, tutti gli aspetti scritturali piuttosto conseguenti.
    Con queste mie tre critiche che considero esiziali e preliminari, definisco la fondatezza dei tre pilastri della mia stroncatura: désolé, sorry.
  • Vedi Carlo, tu hai appena enunciato la triade di note propria della critica nichilista, materialista e laicista della nostra epoca, nei confronti di quasi tutta la letteratura, non solo di quella come dici tu “dimostrativa”.
    Non so se ne sei edotto anche esplicitamente. Ma hai appena esposto la tiritera che – per esempio – per parecchi lustri, tutte le settimane per sul molto sinistroso Espresso, il famoso critico relativista Guglielmi centellinava impietosamente a proposito della maggior parte dei romanzi pubblicati. Stroncandoli quasi sistematicamente.
  • Non conosco questo Guglielmi.
  • Poco male. Ma vedo che esprimi, in modo comunque rigoroso, la piatta teoria estetica e ideologica che, con metodo, utilizzava nella sua rubrica settimanale. E nel periodico più di riferimento culturale per l’epoca dagli anni ’70, fino a giungere al pensiero unico in auge nel nuovo millennio: la fase storica, questa, in cui anche il marxismo allora dominante si è trasformato in orribile “pensiero unico secolarizzato”.
  • Grazie dell’inquadramento storico. Ma non mi pare che, sui contenuti, tu abbia risposto minimamente.
  • In effetti hai ragione. Volevo solo mettere in evidenza, senza con questo difenfere per nulla la qualità “letteraria” dei miei racconti, la piatta generalità dei presupposti cosiddetti critici, massivamente diffusi nel mondo culturale della nostra sedicente modernità. Il citato Guglielmi ne era solo un illustre esponente: era anche responsabile culturale, non a caso, di una televisione di Stato italiana. In Francia poi – autodefinita “patria della letteratura” – già alla fine degli anni ’80, un raffinato scrittore di grido e ben massificato dal successo editoriale, Philippe Sollers, dichiarava la “reale sparizione completa della vera critica letteraria”.
  • Anche di questi conosco solo le tetre e miserevoli polemiche paraculturali rimbalzate pure in Italia a proposito della Macciocchi sua accolita. “Letterariamente” anchesì emigrata a Parigi fino a farsi elegantemente insultare e dileggiare, con fondamento, nella popolare emissione televisiva di Bernard Pivot, Apostrophe
  • Vedo che sei ben informato. Ma dicevo, a proposito dei fondamenti ideologici della critica letteraria moderna – in realtà modernista! –, oltre all’Italia e alla Francia, è necessario almeno ricordare i molto importanti Stati Uniti. Dove il grande saggista Harold Bloom è stato seguito internazionalmente, per più di mezzo secolo, come registrazione storica della massima critica letteraria planetaria. Con l’ideazione del suo “modulo canonico”, ha rivoluzionato il metodo critico corrente annientando storicamente tutto il criticume massificato, ignorantello e fondamentalmente marxiano… Questo grande critico mondiale, forse il più importante anche se molto anglofilo, ha però toccato il suo limite superiore considerando Shakespeare, e non Dante (!), ai vertici della produzione culturale nella storia letteraria e poetica.
  • Dovrò informarmi anche su questa sommità americana che non conosco assolutamente!
  • All’inizio, mi dicevi di “non capire il perché scrivo”: mi ricorda la famosa domanda di Carlo Bo, scrittore cattolico, che si chiedeva, letteralmente, “Ma perché scrivono”?
  • Questa l’avevo già sentita…
  • Quando entro in una libreria, mi viene il mal di testa per le montagne di libri stampati dall’uomo detto “senza qualità” della nostra epoca: distruggendo sterminati boschi per fabbricarne l’inutile cellulosa destinata poi, molto spesso, al finale e fatale macero. I libri sono, si sa, relativamente poco letti nella nostra civiltà detta dell’immagine.
  • È vero, succede a volte anche a me: sono andato, per esempio, alla fiera del libro di Torino…
  • Mai era successo che l’umanità si sia messa a scrivere (non proprio a leggere!) così tanto come quando ha rifiutato, soprattutto a partire dall’illuminismo, l’universo teocentrico per affermare quello antropocentrico ed egocentrico. Come se l’uomo possa essersi costituito da sé e come se, essendo sorprendentemente nato, non dovesse sapersi, relativamente presto, sepolto nel cimitero delle umane creature. E questo in modo inversamente proporzionale alla sua possibilità di esprimere veramente il fatidico “senso compiuto”, quindi nel Mistero, della vita.
  • Ma tutta questa pubblicistica servirà bene a qualcosa!
  • Me lo chiedo continuamente. D’altronde il nichilismo contemporaneo sostiene la tesi intrinsecamente assurda, ma ben operativa, che non solo non esiste finalità alcuna, ma che nessun scopo, se non fattuale, possa veramente esistere. Trovo immancabilmente che invece tutta questa letteratura non serva apparentemente ad altro che a fare impazzire sempre più tutti e ognuno essendo diventata pure psicologista. Diceva l’inglese Chesterton un secolo fa (cito a memoria compreso il contesto) una frase molto ripresa: “Quando non si crede più in Dio Creatore – e questo in cooperazione con la Creazione continua con l’uomo – si giunge a credere in ogni cosa e in qualsiasi idea”.
  • In effetti, apprezzo i post nel tuo blog in cui non finisci mai di mettere in evidenza tutte le corbellerie di quanto chiami la “cultura di massa”, a priori sempre piena di luoghi comuni e falsificazioni ideologiche. Ma cosa mi dici della dimostratività kitsch dei tuoi racconti? E dell’io narrante assurdamente onniscente?
  • Tutti i racconti – sistematicamente tutti, compresi quelli non proprio cortissimi come i miei e i grossi romanzi – perseguono sempre una finalità. Anche se in modo implicito e non dichiarato, spessissimo nel più puro relativismo pratico e dittatoriale. Altrimenti perché carlobonianamente si scrive?
    Anzi, soprattutto allorquando non lo si dichiara, o quando se ne dichiara ipocritamente il fine contrario, si persegue uno scopo, una dimostrazione, almeno di fatto. Quasi tutta la cosiddetta cultura contemporanea si fonda sulla dichiarazione implicita e ormai classica che la vita non ha senso. Ma l’uomo è naturalmente e ontologicamente fatto per ricercare e avere sempre un senso, il senso dell’esistenza. Meglio dunque disporre di uno scopo più o meno dichiarato. Anche se, da un punto di vista estetico, non è detto che si debba affermarlo sempre ed esplicitamente…
  • E cosa mi dici del tuo io narrante?
  • Bisogna essere corti anche di intelligenza – come il giustamente a te sconosciuto materialista e molto dialettico direttore televisivo Guglielmi – per voler togliere all’autore una sua progettualità. Malgrado la sua fatale fallibilità, perché dovrebbe esserne privato? Non è forse suo destino quello di aggiungere, se possibile e nella misura del possibile, valore al Creato come ogni lavoratore anche manuale e modesto? Altro che giungere ad escogitare statalisticamente una imposta (la IVA) alla libera produzione: vale a dire al lavoro, naturalmente umano. L’assurdo è tassare il lavoro e mai abbastanza il consumo! In questo senso, secondo i talenti – minuscoli o immensi – di cui ogni uomo dispone, ciascuno deve cercare più bellezza e utilità al mondo e nel mondo. Si sottace questa verità per far consumare in modo acefalo al massimo.
    Altra cosa invece si ha, dal punto di vista estetico: nell’inventio letteraria, quella che gli scrittori medievali definivano nella loro geniale retorica i criteri dell’invenzione. Dell’ideazione oggi chiamata genericamente “comunicazione” che nasconde l’irriducibile problema del talento.
  • Sapevo che mi avresti ben infarinato con le tue risposte, come dicono anche dalle tue parti in quel del Belgio, che mi avresti “roulé dans la farine” per pronto essere fritto nell’olio bollente da me stesso riscaldato…
    Resto comunque alquanto perplesso.
  • C’è in letteratura un problema reale: il talento per l’appunto personale. Non ho mai preteso di essere uno scrittore e tantomeno un grande scrittore: un Dostoyeski, un Leopardi, un Bernanos. Anzi. Certamente non un pirlotto qualsiasi che scrive per vanagloria. Ho pubblicato il mio primo libro non prima del mio compleanno di cinquant’anni. Mi ritengo infatti incaricato – falsa modestia a parte – da una per me inevitabile missione, quella di essere molto semplicemente testimone personale della mia (seppur piccola) Fede. E di essere stato afferrato dalla Verità che Cristo ha incarnato e continua ad incarnare ogni giorno, attraverso la Santa Trinità, per la libertà reale della vita di ogni uomo: la mia e non solo, nel qualcaso. Cerco in effetti di essere umile ma mai ambiguamente modesto. Per tutto il resto si può sempre discutere. Sono un piccolo imprenditore: non mi offendo se mi accusi di poco o di nessun talento “letterario”.

 

 

 

Il dialogo iniziato al bar di una stazione di metropolitana tra i due vecchi amici meneghini continuò nella casa di Carlo a Milano, a Porta Romana. È lì che dovevano arrivare per cena Bernardo e Diana, una coppia amica di famiglia, soprattutto della moglie del padrone di casa, un grande  appartamento signorile. I due ospiti erano interessati a conoscere Luigi per presentargli Gabriella, la loro figlia all’ultimo anno di lingue, determinata a fare uno stage a Bruxelles a fine laurea. Luigi, infatti, aveva fondato e sviluppato internazionalmente una impresa di comunicazione multilingue alla fine degli anni ’70 a partire dalla capitale belga. Ora che sua figlia stava riprendendo la direzione dell’agenzia head office, Luigi faceva una visita di cortesia all’agenzia di Milano che, a sua volta, aveva aperto un’altra sede, sempre in franchising, e sotto la stessa marca bruxellese, a Tokio.
All’arrivo di Gabriella e dei suoi genitori, titolari di una piccola agenzia di viaggi, il sestetto – tutti milanesi – si ritrovò a tavola intorno ad un risotto alla zucca con contorno di gamberetti e, soprattutto, di belle capesante dette Saint-Jaques: coquillage in onore a Luigi emigrato, da una quarantina d’anni, con la moglie nel paese del Mare del nord, con la sede principale dell’Unione europea.
Quasi subito la conversazione svoltò sull’imprenditorialità e sui giovani molto disoccupati. Gabriella si mostrò rapidamente vispa e direttiva. Spigliata, dette per scontato che il suo stage di sei mesi fosse già terminato con la redazione della sua tesi che aveva strutturato e iniziato, in inglese britannico e in italiano, su Joice. Il quale, simmetricamente a lei, era anglofono (irlandese) trasferito a Trieste come insegnante d’inglese alla Berlitz di un secolo fa. Gabriella, era già stata a Dublino per un anno intero di università. Ora voleva approfondire il suo francese, in generale declino in Italia, contrariamente a più di due generazioni precedenti. Ma soprattutto era interessata al lavoro. Alla conversazione si inserì animatamente, fin dall’inizio, pure la moglie di Carlo, Emilia, piena di altezza vitale e molto colta o, quantomeno, parecchio coltivata.

  • A me la cosa che sempre è andata di traverso è che si parla dappertutto, anche in famiglia, alla televisione e sui giornali, di trovare un “posto” di lavoro, naturalmente detto “sicuro”. Solo gli inamovibili statali possono dirlo! Gli impiehi nel privato, invece, sono molto raramente così sicuri. Mai che si accenni a fondarne uno nuovo. Mentre ogni tanto si legge un articolo in cui genericamente si dice che nei prossimi quindici anni quasi un terzo delle attività sarà nuovo, completamente nuovo. All’università, alcuni docenti se ne fanno molto lustro argomentando sulla cosa, salvo poi prospettare in pratica una concezione del lavoro totalmente dipendente e subordinata. Spesso anche di tipo impiego statale.
  • Glielo dico sempre a Carlo – come se aspettasse da tempo di parlare, intervenne Emilia – che tutti fondano sullo Stato. Il quale dovrebbe “creare posti di lavoro”. Ma lo Stato, se c’è una cosa che deve fare è invece eliminare un milione di statali inutili assunti in Italia da decenni per clientelismo e arcaismo di puro potere politicistico. Anche Vittadini, quello che è professore di statistica qui alla Bicocca… ma sì quello da moltissimo tempo alto dirigente di Comunione e Liberazione, l’ha scritto nel mese del marzo scorso, in un articolo sul Sussidiario, che ci sono almeno 750.000 statali eccedentari in Italia. Ma, statalista com’è diventato, dice e scrive che non bisogna licenziarli. A cosa serve allora la sua statistica rigorosa?
  • Serve a rassicurare tutti i suoi statalisti e ben piazzati nei loro privilegi, continuò Diana: sono “fanigotton” come si dice spesso qui in Lombardia – certo non tutti! – e generalmente lavorano (si fa per dire) nemmeno un terzo di quanto noi sgobbiamo nelle nostre piccole imprese per pagare tasse. Diglielo tu Bernardo fino a che mese dell’anno, hai potuto calcolare, che dobbiamo lavorare per pagare i nostri contributi. Compresi i sabati e a volte le domeniche. Per non parlare delle nostre cosiddette ferie sempre inframmezzate di lavoro ininterrottamente molto attivo e sempre preoccupante.
  • Sono anni ormai che non mi cimento più nella cosa. Troppo demoralizzante e depressivo: circa a fine luglio, avevo calcolato, aggiunse il marito operatore turistico Bernanrdo.
  • Figurati che in Belgio, l’ho appena letto, precisò da protagonista ancora Gabriella, si è arrivati quasi a un funzionario per ogni lavoratore attivo nel privato!
  • In effetti, a Bruxelles, ho fatto anch’io il conto che devo lavorare in agenzia fino alle quattro meno un quarto ogni giorno per quello che ancora definiscono eufemisticamente “les contributions”, le nostre infinite tasse: erano 950.000 nel 2001, oggi i funzionari statali belgi sono più di 1.450.000, per una popolazione di appena 11 milioni (tanto quanto o un po’ più della Lombardia). È il record mondiale dello statalismo burocratico e tecnico da mantenere.
  • I lecchini giornalisti di tutti i media non ne parlano mai, aggiunse Gabriella tutta contenta di riprendere il filo di Luigi. Ma pure gli studenti non ci mettono lingua: mentre i giovani nel paese hanno generalmente votato NO al referendum contro l’establishement e il governo statalista, qui a Milano mi sa che hanno optato, almeno maggioritariamente, per il. Motivo? L’ideologia, oltretutto inerziale, della sinistra ultrafallita.
  • Non solo i giornalisti, qui c’è un doppio fenomeno gigantesco e planetario che anch’io – nel mio piccolissimo, tra non molti a livello internazionale, purtroppo – continuo a denunciare da più di vent’anni in parecchi libri e constantemente nel mio blog bilingue per il mio pubblico, principalmente francofono e italiano.
    Prima di tutto, la denatalità da cinquant’anni che ha provocato la più gigantesca penuria di domanda relativa nella storia, quindi la conseguente e ancora irrisolvibile crisi economica; e poi, l’altro fenomeno collegato e alla radice, ancor più radicale perché altrettanto perversamente immorale e contro natura, dato dall’edonismo massificato e a credito: con il cancro corrispondente del debito pubblico!
  • Si tratta di temi non totalmente nuovi, ma trattati talmente raramente e nell’inattualità nominalistica mai contabilizzata, si inserì ancora Diana…
  • In effetti, non solo inattuali ma scandalosi e indicativi del livello di ignoranza e di scervellatezza – roba da lobotomizzati di massa –  cui il nichilismo consumista contemporaneo è giunto, soprattutto in paesi come il “mio” Belgio: hanno fatto nel 2015 anche una incredibile legge che legalizza perfino l’eutanasia dei bambini, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Del resto con l’Italia, al suo 133% del PIL (in Belgio più del 106%) siamo ai livelli massimi del mondo, non molto lontani dalla Grecia. Lo Stato, invece, dovrebbe avere avere almeno dei bilanci a zero!
  • È ormai quanto succede anche col transumanismo che predica e fa nel nostro universo diventato molto peggio del nazifascismo e del marxismo-leninismo al potere, sibilò Emilia. Perché molto peggio? Semplicemente perché non si premura nemmeno di giustificarlo razionalmente o almeno teoricamente: la demenza di massa è diventata di norma e quotidiana!
  • Ma spiegaci, Luigi, i due fenomeni di cui hai appena accennato i titoli, chiese Carlo.
  • Ve lo sintetizzo rapidamente. Il resto dovrete approfondirlo leggendo, per cominciare e se vorrete, i post sul mio blog. E, soprattutto, i molto rari grandi autori che si sgolano inutilmenete da anni: nemmeno ascoltati o contraddetti in modo quantomeno interlocutorio. Per esempio, qui in Italia, è la grama sorte di Ettore Gotti Tedeschi, il grande cattolico ex responsabile delle finanze vaticane.
  • La cosa non mi stupisce, soprattutto rispetto ai giornalisti ignoranti e pennivendoli, non mancò di puntualizzare Gabriella, con una punta di impertinenza ben notata.
  • È da più di due secoli, cioè da una infinità di tempo, che ci si mostra il grado gravissimo di scempiaggine dell’intelligenza umana modernista: la teoria ideologica di Malthus è tuttora creduta fondata e sempre vera. Cosa diceva e ancora si pretende da parte degli attuali neo-malthusiani? “Il pianeta non sarebbe in grado di nutrire tutti gli abitanti nel mondo. Essendo troppi – asserivano e assicurano ancora arrogantemente anche alti prelati della Chiesa cattolica! – devono essere assolutamente ridotti”. Da due generazioni, cioè dagli anni 60, circa due miliardi di non nati (tre-quattro volte la popolazione europea!) hanno stravolto riducendo drasticamente, per la prima volta nella storia, il naturale sviluppo demografico e umano. Attraverso la contracezione generalizzata e gli orribili aborti assassini, con la scusa del controllo “responsabile” delle nascite.
    Invece nel 2015, allorquando la popolazione mondiale è divenuta almeno cinque volte quella dell’inizio dell’ottocento (!), con buona pace di Malthus e con il suo tragico riferimento statistico profeticamente demente, il mondo ha prodotto una volta e mezzo in più del necessario per l’attuale alimentazione mondiale. Restano solo da risolvere gli sprechi e le cattive oltreché squilibrate distribuzioni tra i vari paesi.
    Ne avete mai sentito parlare voi, nella profusione invadente dell’attuale cosiddetta informazione ossessiva, ripetitiva e inutile?
  • Incredibile!, fu il commento ancora troppo ostentatamente scandalizzato di Gabriella, un po’ sopra le righe.
  • In effetti, come voi stessi potete constatare, solo degli specialisti rarissimi, ne sono al corrente: degli studiosi fondamentalmente anglofoni, americani in particolare, hanno smantellato tutte le falsificazioni malthusiane che da duecento anni corrono indisturbati e tranquillamente sui nostri media conformisti e ora politically correct. Mentre una notizia del genere, sebben tardiva, molto e incredibilmente tardiva, è rimasta solo confidenziale.
  • Doppiamente, triplamente incredibile, aggiunse ancora la più giovane della tavolata quasi dimentica di gustare i gamberetti abbondantemente disseminati nel risotto.
  • L’idea di ridurre artificiosamente, non solo in Occidente, il numero di figli fino a mediamente meno di 1,3 per coppia, mentre solo il tasso di 2,1 sarebbe l’indice demografico minimo per la pura sostituibilità delle popolazioni – continuò Luigi, dopo essersi dedicato alle sue deliziose capesante – è considerata una verità e una necessità universalmente ancora incontestabili. Naturalmente, tutti gli innumerevoli cosiddetti “esperti” continuano imperterriti a non capire nulla o quasi di essenziale sulle cause principali della crisi economica. Di cui son costretti a constatare, da molti anni, la deludente impossibilità di uscire da se stessa. In realtà, le piccole riprese e ripresette continuamente sbandierate non sono altro che molto parziali o marginalissimi ricuperi della madornali perdite progressivamente registrate, anche solo nell’ultimo decennio.
  • La cosa è macroscopica, oceanica: com’è stato possibile e, ancora, è tuttora possibile? Altro che i già clamorosi fallimenti dei sondaggisti nella Brexit, per Trump nettamente vittorioso e nel referendum italiano in cui l’errore dei pronostici mediatici è stato di circa 20 punti (!), sottolineò Carlo.
  • Ma l’aberrazione è ancora più vasta e grave. Il secondo fenomeno, è quello famigerato sebben praticamente sconosciuto dei debiti pubblici.
  • E perché sarebbe più grave?, chiese subito Bernardo a Luigi.
  • I debiti colossali e sostazialmente mai restituiti e non restituibili, ormai tacitamente rimandati (immoralmente e antidemocraticamente) alle cosiddette future generazioni, generano due conseguenze letali oltre ai costi già insostenibili a causa degli interessi annuali (circa e mai precisati tra 70 o 90 miiardi all’anno: una cifra da capogiro!). Innanzitutto, l’immoralità pubblica di un tipo di società ingorda, mai sazia di ozio e privilegi fatalmente criminali, alquanto irresponsabilmente nullafacente e a gogo: il famoso edonismo straccione!
    In secondo luogo, la fatale creazione massificata di una tragica classe sociale praticamente artificiosa di finanziatori naturalmente non gratuiti, i famosi attori della finanza: divenuti intrinsecamente nuovi parassiti, alle spalle del mondo veramente produttivo. Perfino Papa Francesco ha tuonato contro queste caste finanziarie che fanno il bello e cattivo tempo in economia. Ma senza notare – come abitualmente, del resto – che esse vengono create dalla volontà popolare degli utilizzatori del vivere indebitamente e peccaminosamente al di sopra dei propri mezzi. Quando si è poveri, si deve lavorare e non imprestare fondi (senza garanzie reali, peraltro: tanto c’è lo Stato statalista complice che dà il fido…) per fingere, soltanto fngee, di vivere come nababbi: l’illusione della ricchezza non può, in effetti, durare molto. Da cui la globalmente recessiva crisi economica attuale. Tutto il ceto produttivo, come noi riuniti intorno a questo tavolo, è vittma designata e ormai permanente di tutti questi statalisti malfattori e resi impenitenti!

 

 

 

Quattro mesi dopo la cena milanese al risotto, Gabriella  aveva già iniziato il suo stage a Bruxelles. La sua fresca bellezza, unita a una vivacità allo stesso tempo relativamente intellettiva oltreché molto femminile, le avevano già rivolto le attenzioni amorose di due altri stagisti come lei. Forse con l’intuizione razionale che maggiormente l’animava, aveva intimamente scelto la corte di un interprete francofono già in tirocinio, rispetto a quella di un futuro traduttore inglese, Alan, che pure l’attirava intensamente. E con cui facilmente parlava – ameno all’inizio – nella lingua ben imparata in Irlanda. Esteriormente pareva forse indecisa tra i due giovani. Ma Gabriella fu sempre più implicata nelle relazioni numerose, di amicizia e familiari del collega spasimante bruxellese che le offriva molteplici occasioni di rapporti diretti e sociali. Tanto più che la madre del giovane belga, oltre ad essere parecchio amica della moglie di Luigi, era una delle responsabili di punta nel movimento cattolico “pro life”, in antagonismo con le maggiori tendenze nichiliste nel paese. Perdipiù nulla poteva interessare a Gabriella più delle discussioni sul transumanismo con Gilbert: era questo il nome del bel ragazzo già molto poliglotta con le  sue tre lingue nazionali (olandese, tedesco e francese, la sua madrelingua) più un inglese imparato fin dalle scuole elementari e, soprattutto, presso gli zii residenti a Brighton: a nemmeno due ore di eurostar. Gilbert, non fosse per la cultura impegnata e acutissima della sua famiglia (il padre era impiegato nella stessa diocesi di Bruxelles-Malines al servizio del primate del Belgio come economo delle scuole fiamminghe), aveva già una capacità dialettica molto ampia.
Il suo tirocinio presso l’agenzia di Luigi era esplicitamente motivato dall’interesse, già da tempo preordinato, di fondare a Londra una sede “master franchising” dello stesso ancora piccolo gruppo per tutto il territorio britannico. La progettualità del lavoro e la destinazione dell’installazione nella più importante metropoli europea non potevano che rivelarsi a fagiolo per la seducente Gabriella.
C’erano anche altre due stagiste nell’head office di Bruxelles: una madrilena, Concita, molto interessata e dedita ai concorsi presso l’Unione europea; e una  tedesca dell’Università di Heidelberg, Brigitte, parecchio dotata intellettualmente e già avviata all’insegnamento universitario. Con queste due compagne, Gabriella non sarebbe mai andata molto oltre una cortese vicinanza relazionale, per lei facilmente vivibile, in piena simpatia. Alan, il corteggiatore inglese, ancora molto tardo-adolescente e professionalmente parecchio indeterminato, si ritrovò presto piuttosto spiazzato. E questo, a dimostrazione del fatto che l’utilità globale degli stage è direttamente proporzionale alla disponibilità e all’interesse attivi verso ciò che ingenera la produzione di ricchezza. Vale a dire l’azienda stessa e l’imprenditorialità – almeno intraprenditoriale, come in America e in Inghilterra – dei suoi uomini. Gilbert aveva fatto di questi due fattori i cavalli di battaglia a supporto della sua legittima conquista di Gabriella cui era irresistibilmente attratto, soprattutto fisicamente. Non l’aveva mai toccata, nemmeno casualmente o involontariamente. Ma tutti ne avevano notato il campo magnetico di induzione nel quale continuamente cercava di essere immerso: una sorta di bisogno di farsi “cuocere” dalle radiazioni benefiche delle microonde della bella milanese.
Non disponeva di un discorso molto preciso e veramente articolato sull’imprenditorialità, la “sua” intraprenditorialità anche ben vocazionalmente istintiva, ma era riuscito comunque a comunicare alla per lui divina giovane musa l’oggetto della sua ricerca di desiderio. Quasi la sua anima. Se non della prepotente e costante tendenza alla creazione della bellezza vitale, era giunto a esprimere il suo senso irriducibile che lo generava. Il valore, si sa, è sempre preceduto dal suo sentimento.
Gabriella ne era rimasta polarizzata completamente. L’aver incontrato poi un coetaneo già fornito di una idea adulta e operativa, addirittura fondata su un progetto di installarsi professionalmente a Londra, forse la seconda metropoli al mondo e la prima europea, l’aveva eccitata al suo più alto livello. Anche di altezza amorosa.

 

 

 

Si possono capire solo le cose nuove che si sono già comprese e amate vitalmente, aveva scritto Nietzsche in un suo famoso aforisma. Sebbene avesse conosciuto Luigi a Milano e partecipato attivamente (forse troppo) alla cena con tutte le sue discussioni profonde, e ben che avesse letto in modo dettagliato il sito web dell’agenzia ormai già installata su quattro continenti, Gabriella realizzò la vera natura progettuale della ditta, nella quale stava realizzando il suo stage, dalle incessanti spiegazioni – molto associative – di Gilbert. Il concetto di “glocalizzazione” l’aveva sentito e letto tante volte. Ma l’aveva veramente assimilato nelle spiegazioni del master franchising così come il suo innamorato gliele aveva descritte e prefigurate. Le ambizioni di Gilbert non si arrestavano alla territorialità britannica. Egli pensava di costituire un secondo head office a Londra di vero riferimento per la maggior parte delle agenzie in franchising, soprattutto future nel mondo. In effetti, era l’inglese e non il francese (o le altre due lingue parlate in Belgio) a costituire la cultura veicolare di comunicazione per la maggior parte – la quasi totalità – delle aziende in tutti i paesi. Ognuna di esse, come già era accaduto a Shanghai per la sede di Milano, poteva creare una o più altre agenzie nello stesso paese o all’estero. In realtà, secondo lo slogan generale scaturito dalla sede centrale di Bruxelles, vale a dire “Where the languages are spoken”, tutte le produzioni di comunicazione pubblicitaria e multilingue dovevano e devono essere concepite e fabbricate pertinentemente nei paesi dove siffatte lingue, con i loro geostili particolari, vengono realmente parlate.
In fondo, ripeteva Gilbert, non senza arguzia amorosa specifica, l’idea matrice della glocalizzazione era tipicamente di “origine” cattolica: globale, universale, ma identitaria, cioè particolare senza alcuna perdita della ricchezza insostituibile della cultura espressiva di ogni lingua! Almeno da quando Cristoforo Colombo, nel suo gigantesco e comprensibile errore di credersi arrivato in India, scoprì avventuristicamente il nuovo continente America; oppure dai tempi del primo monachesimo che non arrestò la sua irresistibile espansione universale nemmeno ai limiti dell’universo allora conosciuto: fino in Irlanda o in Russia e in Siberia; è cioè da sempre che l’uomo non finisce di inevitabilmente globalizzarsi. Gilbert si dilettava a descrivere questi concetti storici come se stesse modellando la creta della sua sempre più “sua” Gabriella. Lei lo seguiva felice di averlo incontrato dedicandoglisi sempre più. Non c’era nemmeno la necessità che parlassero dei loro programmi: essi coincidevano a priori nella finalizzazione inevitabilmente pratica delle loro descrizioni. Ecco cosa la strategia realistica produce allorquando è il rapporto con il reale a stabilire la teleologia delle cose, la scoperta affamata della legge inscritta negli stessi fatti reciproci. Così tutto diventa naturalmente spontaneo. Il futuro dei due giovani si delineava ai loro occhi ricco e fecondo con l’approfondire delle conoscenze e lo svolgersi cumulativo del loro stage.
Ma il compimento di tutta questa dovizia di bellezza, del loro piacere già pieno e colmo di senso, era dato dalla grazia creaturale del loro incontro nella tradizione, nel raro e prezioso compiersi nella Chiesa universale. Gilbert lo sapeva, ma mai l’aveva vissuto in modo così vitalmente evidente e chiaro. Tutta la sua esperienza, praticamente i suoi più di vent’anni familiari di cattolicità praticata, confluivano e si celebravano nella totalità degli occhi splendenti di Gabriella intenta ad ascoltarlo. Ad esprimere con la sua felicità aggraziata una promessa di compiutezza già in atto: dai suoi capelli lucidi al suo incedere leggiadro sui due gradini dell’entrata in ditta per il lavoro quotidiano.
A mille kilometri, per più di due decenni, in un’altra lingua, con una ben diversa famiglia, in un ben altro mondo di bellezza nel cibo e nei sentimenti molto artistici, s’erano modellati quel sorriso e quei lineamenti, quelle dita e quel seno che ora tanto attraevano Gilbert. Il primo loro bacio li aveva fissati in una definitività eternamente già  realizzata, perfetta. In una intimità unica, inviolabile e, allo stesso tempo, universalmente pubblica e comune.
Era per Gilbert venuto il momento di farle conoscere la sua famiglia.

 

 

 

  • Il problema numero uno dell’uomo, da quando era troglodita fino a quello attuale detto postmoderno, è sempre stato lo statalismo, aggiunse Luigi al caffé della cena milanese. E questo, in riferimento alla svolta piuttosto irreligiosa e riduttiva del movimento Comunione e Liberazione a cui continuava ad appartenere, con sede centrale e fondativa a Milano.
  • Anche per i primitivi trogloditi che lo Stato nemmeno potevano immaginarselo?, interloquì subito Carlo.
  • Sì. Il cardinale Ries, un umile prete belga elevato alla porpora per meriti culturali e religiosi da Benedetto XVI, appena un anno prima della sua morte a 93 anni (!), ha fondato la sua fama di scienziato religioso quasi esclusivamente nell’ambiente detto dell’antropologia culturale. Egli è uno delle quattro personalità eccelse nella storia moderna del Belgio, attualmente il letamaio spirituale più puzzolente del mondo civilizzato con le sue leggi nichiliste, transumaniste e laiciste.
  • Quattro personalità? Così tante? Incredibile!, ribatté subito molto sarcastico l’amico di sempre Carlo.
  • Gli altri tre erano: père Damien, fiammingo proclamato santo, per essere anche morto di lebbra essendo andato a vivere missionario in una isola del Pacifico adibita a lebbrosario nell’ottocento; il seguente, re Baldovino (attualmente in via di canonizzazione) che abdicò per 48 ore allo scopo di non firmare la orribile legge assassina sull’aborto banalizzato, approvata dal parlamento; e infine, l’ultimo, il solo vivente e in pensione, l’arcivescovo primate del Belgio, Léonard, nominato da Benedetto XVI e bistrattato da tutti i media. Con anche l’ostilità della quasi totalità della Chiesa nazionale e con alla testa l’altro cardinale Danneels, tra i protagonisti del gruppo “complottista” detto di San Gallo: quello sostenitore della linea molto casuistica, attualmente e da anni, anche se a giorni alterni, seguita da Papa Bergoglio.
  • Casuistica? In due parole spiegaci cosa significa, disse Diana, la moglie di Bernardo e madre di Gabriella.
  • Due parole sintetiche. Non fosse che il casuismo è molto legato al concetto eterno di statalismo. Per cui esso è pertinente per il troglodita classico e per la definizione che ha reso famoso alla storia lo stesso cardinal Ries: l’homo religiosus. Accanto a tutta la serie preistorica dell’homo erectus, dell’homo habilis, fino all’homo sapiens, la voluminosissima opera di ricerca di Ries dimostra che prima, all’origine e contemporaneamente degli altri modelli, c’è il suo homo religiosus. Al suo funerale, cui erano significativamente assenti tutti i vescovi fiamminghi e la famiglia reale, i suoi accademici antropologi universitari avevano fatto a gara per celebrarlo. Anche Levi Strauss, il padre europeo riconosciuto dell’antropologia culturale, era diventato suo ammiratore e amico.
  • E la casuistica?
  • Ci arrivo subito, Diana. Ries era diventato amico personale di don Giussani, il fondatore e responsabile per sessant’anni di Comunione e Liberazione, il più grande e importante movimento nella Chiesa – come sapete – nel ventesimo secolo. Per tredici anni aveva pure partecipato al ciellino Meeting di Rimini, la più qualificata e grande manifestazione religiosa e culturale al mondo. Tutta la sua opera omnia è stata anche pubblicata dalla casa editrice Jaka Book di Milano, vicinissima a CL.
    Il casuismo ha costituito l’eresia del diciassettesimo secolo per cui sarebbero le circostanze storiche, cioé le condizioni esistenziali dell’uomo – e non la sua ontologia, la sua natura intrinsecamente immutabile di creatura – a determinare il rapporto col suo destino escatologico (cioè relativo alla sua salvezza umana ed eterna). Una inversione teologica gravissima, come quella cui corre appresso, anche se solo moderatamente e, sul piano solamente culturale, l’attuale CL.
  • Bene – disse Carlo – ma qual’è il rapporto con lo statalismo?
  • In questo senso, le circostanze storiche compreso il potere statuale sono sempre le stesse. Ci si ricordi della vicenda di sant’Ambrogio, nostro vescovo milanese a cavallo tra il quarto e quinto secolo, contro l’imperatore Teodosio che faceva di tutto per imporre il suo potere imperiale su quello religioso e inviolabile del grande prelato di origine tedesca (veniva da Treviri, cittadina sul confine con l’attuale Lussemburgo)…
  • Di questa vicenda, se permettete, ve ne parlo io che mi considero una vera e fiera ambrosiana, intervenne Emilia. Sant’Ambrogio scacciò anche in malo modo Teodosio dalla sua basilica perché lo giudicava fedifrago: altro che la pratica degli inchini da parte del clero alle politiche laiciste, perfettamente stataliste dei nostri giorni. Molto spesso i cattolici – da qualche anno anche CL con la sua posizione ufficiale progressivamente diventata ipocrita di cosiddetta non ingerenza esplicita nell’”inutile o inopportuna” politica – si astraggono opportunisticamente dalle scelte civili. Esse si rifugiano in una irrealistica “equidistanza e indifferenziazione” di fatto rispetto alle grandi opzioni vitali e politiche. Mai il cristianesimo si era così reso supino alla prevalenza dello Stato sulla vita spirituale, mistificandone le apparenze, salvo quelle personali ridotte all’intimismo mutilato.
  • In effetti – riprese il filo Luigi – abitualmente si parla di statalismo in termini economici. Ma esso è invece una eresia innazitutto religiosa: è solo conseguenzialmente che diventa di tipo economico e politico. Lo statalismo è giust’appunto la prevalenza del potere statuale su quello religioso, culturale e pure antropologico contro la cristocentricità della Chiesa, sempre sovrana e libera.
  • Sant’Ambrogio, a conferma della sua grandiosa misericordia fondata sulla Verità, riuscì – incalzò Emilia –, dopo il suo gesto praticamente anche violento in basilica (come Gesù con la frusta sui mercanti nel Tempio), a organizzare una grande e solenne riconciliazione con lo stesso imperatore Teodosio: questi si ripresentò in chiesa senza corona e in ginocchio davanti ad Ambrogio, come è possibile vederlo dipinto in un famoso quadro di Pierre Subleyras: vi consiglio di andarvelo a guardare almeno su wikipedia! Gli attuali vescovi spesso tremebondi e avvezzi a ritirarsi nello spiritualismo casuistico e opportunista, lasciando così campo libero all’orribile nichilismo politicista, dovrebbero impallidire al solo confronto. Ho maturato queste convinzioni soprattutto dopo la morte di don Giussani cui cerco di rimanere fedele.
  • Sono felice che Emilia possa spiegarvi anche le mie posizioni e illustrarvi cosa è il cancro mortale dello statalismo. E del casuismo disincarnato di un cattolicesimo senz’anima perché subordinato al potere materiale e ora dissennatamente borghese.
  • Non ho una gran cultura teologica, ma il senso religioso, questo so bene cos’è, rincalzò Emilia. Sono convinta che la teologia, vale a dire la vera scienza amorosa del Dio vivente, inscritta nel cuore di ogni uomo, sia la cultura originaramente e intrinsecamente del popolo che non può essere neanche minimamente tradita. O deviata dagli ideologismi intellettualoidi. Soprattutto casuisti.
  • Non mi spiego ancora – insistette Carlo – cosa possa azzeccarci lo statalismo del primitivo troglodita ben privo ancora della nozione stessa di Stato!
  • Avete ragione forse entrambi: ad essere estremamente sintetici si rischia di saltare qualche passaggio di troppo che rende poco comprensibile il paragone o l’analogia. In effetti senza Stato, lo statalismo – in senso stretto – non può esistere. Carlo, da questo punto di vista ha ragione. Altra cosa è essere ignari pre-cristiani che forsennatamente laicisti decisi fino a mettere il cristianesimo all’ostracismo. Ma ciò che rende comunque possibile l’accostamento è la negazione arrogante e narcisista dell’uomo, sia postmoderno che troglodita, della creaturalità umana. Non riconoscendosi come creatura, nata e destinata al cimitero senza che questa sua origine e finalità dipenda dalla sua volontà tanto celebrata, egli diventa statalista. Potenziale nel caso del troglodita: oppure uomo contro natura sia come transumanista attuale che come già ideologicamente ateo ed esclusivamente immanente. In fondo è la stessa cosa anche se con evidenti differenze di tipo culturale e storico. Così si ha il paganesimo antico o il nichilismo modernista: una scorciatoia che potremmo accettare per non dilungarci in una discussione filosofica e teologica probabilmente molto lunga, concluse Luigi per evitare una possibile deriva intellettualistica alla già molto impegnata discussione al risotto.
  • Non solo – si inserì brevemente in coda finale Bernardo – ma mentre il primitivo pagano era solo passivamente piuttosto a-religioso, il nichilista moderno è attivamente anti-religioso.

Dopo il caffé si passò all’ottimo nocino prodotto dalle monache di clausura e insieme missionarie attive di Pietrarubbia, adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento. Esse erano amiche molto venerate da Emilia, la padrona di casa, grazie a questa doppia loro funzione vocazionale apparentemente opposta e certamente totalizzante, oltreché globale nel cristianesimo moderno.

 

 

 

La madre di Gilbert, Laurence, apparve subito a Gabriella per il grande personaggio la cui reputazione era piena tutta la pubblicistica cattolica e francofona belga. Compresi i siti web, i blog e i vari FB, pro e contro. Madre di cinque figli, tutto il mondo cristiano del paese – dall’arcivescovo “tradizionalista” Léonard ai suoi acerrimi nemici cattoprotestanti maggioritari in moltissime parrocchie – la conosceva a volte anche personalmente. Non fosse che per la sua costante presenza, sempre richiesta, in ogni manifestazione anti-transumanista. Con suo marito, di famiglia fiamminga, e due sue figlie già sposate e missionarie in Africa, i suoi articoli rigorosi venivano pubblicati sia in Gran Bretagna che in Francia e pure in Italia. Gilbert era molto fiero di lei, come pure i due fratellini più giovani. La fece conoscere a Gabriella in un gremito barbecue poliglotta organizzato nel giardino della casa familiare. Si poteva dire che tutta la crème militante del cattolicesimo rigoroso e cristocentrico belga era presente. Non senza difficoltà, Gabriella riuscì – sgomitando moderatamente contro tutti gli amici che l’assediavano – a parlarle personalmente. Prima però seguì le conversazioni che Laurence dirigeva mentre trangugiavano salsicce “merguez” a volte pure bruciacchiate. I temi erano quelli della bioetica, del pensiero unico nichilista, soprattutto nei media relativisti e della connivenza del clero con le tendenze, spesso inconsapevoli, verso il protestantesimo del vicino nord tedesco “cattolico”, polarizzato intorno al cardinale bergogliano Kasper, beninteso molto casuista.
Mentre il marito se la cavava abbastanza bene anche a parlare in italiano, avendo studiato all’università pure di Roma, Laurence imperversava in francese, inglese e olandese con i suoi ospiti. Così Gabriella restò sorpresa per l’elevato livello culturale degli scambi, delle battute e della dimensione cosmopolita del loro orizzonte. E naturalmente, dal rigore teologico ed ecclesiologico che si percepiva in ogni piccolo capannello. Gilbert gongolava a fianco della bella italiana che si premurava di presentare ai più. Gabriella, un po’ frastornata, era molto impressionata anche dall’energia e dalla naturalezza della sua – non poteva evitare di pensarla diversamente – “futura suocera”: una personalità veramente debordante. Quando Gilbert gliela presentò direttamente, la nota e evidente facondia della madre si arrestò d’incanto tutta intenta ad apprezzare l’avvenenza e l’eleganza (nemmeno ricercatissima) della milanese, anzi ambrosiana. La quale percepì l’approvazione della madre rispetto alla scelta del figlio. A Gabriella, del resto, non importava nulla di più dell’accoglienza senza riserve della leader indiscussa di tutta quella compagnia, là convenuta. Trattenne anche la sua naturale estroversione con un bemolle alla sua volontà attiva di sempre autopresentarsi anche abbondantemente… Così la sua artata ritrosia le permise perfino di cogliere in fallo la considerata troppo perfetta Laurence, su un punto essenziale della sua cattolicità: lo statalismo!
L’aveva ascoltata e ben registrata in un breve dialogo con una sua amica che aveva l’aria di volerla rimproverare della sua opposizione passata a ricordare pubblicamente al nuovo e giovane re Philippe, nipote di Baldovino, il suo obbligo morale a seguire le orme, grandiose, dello zio regnante prediletto. Nel rifiuto di firmare l’ignobile e famosa legge assassina. In sovrappiù inaudita, che instituiva per la prima volta mondiale l’eutanasia anche per i bambini (come già si era iniziato a fare nella confinante Olanda)!

  • No, mia cara, l’inevitabile legge transumanista per l’eutanasia infantile – aveva risposto Laurence alla sua amica francofona alquanto polemica – sarebbe comunque passata in parlamento. Il solo fatto di richiamare pubblicamente il nuovo  giovane re a non firmare la legge avrebbe messo in pericolo l’unità nazionale nello Stato federale tra fiamminghi e francofoni!

All’udire questa netta e poi ribadita posizione di Laurence, memore dell’insegnamento della cena al risotto di Milano, Gabriella poté verificare come anche il famoso rigore della madre di Gilbert cascava miseramente come la classica asina di fronte alla testimonianza contro il cancro più irreligioso di tutta l’epoca, non solo moderna.
La cosiddetta unità tra fiamminghi (nederlandofoni) e francofoni belgi veniva, in tal modo, portata al di sopra della verità eterna e inviolabile dell’assassinio di Stato legalizzato dalla nuova legge, anche umanamente iniqua (sotto le false spoglie della cosiddetta compassione). Pure la legge criminale dell’aborto, cui lo zio roi Baudouin si era rifiutato di apporre la firma, sarebbe comunque passata in parlamento. Ma l’“inutile” e clamorosa testimonianza cattolica del vecchio re sarebbe rimasta almeno nella grande memoria popolare che si era  espressa nelle oceaniche manifestazioni anche alla sua morte.
L’aver constatato il limite statalista di Laurence – religiosamente esiziale e totalmente politicista – ingenerò in Gabriella due sentimenti opposti. Da un lato la fierezza di appartenere al rigore irriducibile della Chiesa ambrosiana. E dall’altro lato, che anche l’opposizione più dura al modernismo sgangherato di una Chiesa come quella belga (che corre appresso alle idee sempre irreligiose del mondo) preferisce la fittizia e inutile unità nazionale alle leggi della natura e di Dio. Oppure, quantomeno, non riesce a vederne l’intrinseca gerarchia o antagonismo. L’unità statale e statalista veniva così posta tranquillamente al di sopra dell’intangibile visione divina pro vita!
Tutto il senso più cruciale e definitorio del barbecue era inscritto nel breve dialogo captato da Gabriella. Lei aveva individuato acutamente la vera posizione cristocentrica e teologicamente ortodossa nell’amica di Laurence, di cui non conosceva né il nome né praticamente ancora nulla.

 

 

 

Don Félicien doveva festeggiare tra breve la sua ordinazione con la celebrazione del doppio matrimonio dei suoi amici intraprendenti imprenditori: Genéviève con Joseph e Juliette con Luca. Alla grande festa in svolgimento nel castello reale del Parco di Tervueren, alla periferia di Bruxelles, parteciparono così più di quattrocento persone tutte intorno a varie vecchie coppie, costituite anche dai consuoceri, tutti co-protagonisti nella fondazione di due nuove imprese in particolare. Quella sostenuta dai genitori bruxellesi delle due sorelle, Jan e  Marine,  e quella di altri due genitori, italiani delle Marche: Alberto il copywriter-giardiniere con la moglie madre di Roberto. Il giovane convertito “sorprendentemente profondo”,  dopo una lunga e protratta nausea per eccesso di edonismo divenuto alquanto meccanicistico, aveva positivamente impressionato il suo entourage. Naturalmente tutta la famiglia di Laurence e Gilbert era stata invitata d’obbligo e d’onore. Gabriella si fece particolarmente bella per l’occasione: una festa sacramentale e rara anche dell’imprenditorialità propria della piccola impresa post-moderna e familiare era da non mancare. Il tutto era iniziato con la grande messa solenne nella chiesa detta dei “giovani”, a Sainte-Croix, presso la tradizionale place Flagey dove molta gioventù di Bruxelles si riunisce abitualmente nei numerosi bar e ristoranti, sempre frequentatissimi, intorno al vecchio teatro degli spettacoli più à la page. Confluivano nella giornata celebrativa appositamente preparata varie progettualità di imprese già operative o in preparazione, come quella di Gilbert. E, ormai, di Gabriella tutta tesa a far conoscenza anche dell’amica marchigiana di Juliette, Franca, col suo sposo novello, Roberto (l’esperto e titolare della ditta di piscine conviviali). E con il padre pubblicitario, Alberto, dedicato alla ditta di giardinaggio del figlio (pure se solo dal venerdì alla domenica sera e durante le sue “vacanze”). Un part time diventato centrale e di successo grazie alla sua personale maestria, eccezionale, di originale comunicatore.
Gabriella era pure curiosissima di conoscere la vecchia madre di Roberto, ambrosiana, milanese e cattolicissima trasferita in quel di Ancona.
Infine era l’occasione di incontrare a fondo e personalmente il grafico Luca, l’altro sposo della giornata diventato ormai belga con doppia nazionalità e futuro imprenditore nell’agenzia di Luigi. La sua origine veneta (arrivato da adolescente in famiglia con suo padre divenuto funzionario dell’Unione europea) lo rendeva molto interessante per Gabriella. Anche i genitori veneti del grafico erano in prima linea.
Com’era stato anche progettato, il mega-matrimonio era diventato un piccolo grande avvenimento a Bruxelles, nel seno della città più attiva. Il vescovo ausiliare, da anni  vicino ai giovani cattolici del paese che già avevano la loro sede ufficiosa nella parrocchia scelta per la cerimonia religiosa, si rese disponibile a concelebrare con don Félicien e il parroco della chiesa, alla testa della sua comunità di giovani, a dire il vero piuttosto “progressisti”.
Al castello di Tervueren, diventato il più ricco museo al mondo del Congo e dell’arte africana, anche due troupe televisive (una pure fiamminga) raccoglievano interviste per varie reti nazionali e locali. Gabriella, benché metropolitana e milanese, si rendeva conto della profonda e già antica caratteristica cosmopolita, poliglotta ed etnicamente differenziata di molta popolazione belga. Al di là degli stereotipi veicolati dai media, non aveva mai visto tanta alterità concretamente radicata nella socialità quotidiana. Al confronto delle sue esperienze, l’antropologia variegata bruxellese faceva figura quasi agli antipodi della cultura piuttosto ancora “incestuosa”, generalmente abbastanza raggomitolata, ancora di attualità nel suo Belpaese (però sottoposta, negli ultimi anni, a migrazioni massicce generalmente ormai rifiutate da altri paesi del nord Europa). Aveva così il sentimento di vivere in un mondo che sarebbe diventato modello di “normalità” nel prossimo futuro. Il problema centrale dell’identità di popolo le si poneva nei suoi termini più culturali e liberamente religiosi.
Come trasmettere a Gilbert queste tematiche di cui il giovane, apparentemente, sembrava essere grosso modo a digiuno, almeno riguardo alla sua consapevolezza belga?
E nella prospettiva di installarsi a Londra, vale a dire in una società forse ancor più secolarizzata nel nichilismo, come si potevano risolvere i problemi di una sana famiglia non spappolata nella fatale centrifuga dell’anonimìa modernista?
Mentre era attraversata da questi pensieri, Gabriella veniva continuamente invitata a ballare sulle due grandi terrazze contigue e sovrastanti gli specchi d’acqua meravigliosi. Tutti costruiti sul modello delle architetture di Versailles e ancora più raffinati. Un coro nutrito di volontari alternava le danze con canti pop della ricca tradizione fondamentalmente francofona.

 

 

 

Praticamente tutti in agenzia – compreso Luigi – pensavano, all’inizio degli stage in gennaio, che Alan si sarebbe impalmato la bella Gabriella. Tutte le precondizioni e le circostanze gli erano apparentemente favorevoli: il ragazzo innanzitutto anglofono e apertamente affascinato dalla bellezza minuta, proporzionatissima della milanese, era pure avvantaggiato dalla continuità della sua conversazione brillante nella lingua che Gabriella già parlava correntemente; estroverso con spiccato senso dello humor anche su se stesso; e infine, o innanzitutto, un bel fustone sportivo evidentemente avvezzo, fin da bambino, a non dover mai strafare per conquistarsi le simpatie anche dei maschi coetanei.
Pure Gabriella ne era molto attratta. Abbastanza rapidamente però ella s’imbatté nella cultura esistenziale tipicamente moderna ebritannica da pensiero unico, articolato sull’edonismo di massa tipicamente giovanile. Ma anche conformista, superficiale e fatalmente ripetitivo nella sua coazione consumista. Lo spessore della sua altezza vitale lo relegava,  per Gabriella, nella scontata seppur “attraente” e disinvolta leggerezza tardo-adoscescenziale. Mentre un giovane spensierato persiste in una ricerca incessante di giocosità propria della provvisorietà infinita e completamente intenta nella massificata soggettività, il giovane adulto – quale dovrebbe essere uno stagista a fine percorso – s’introduce veramente nella vasta complessità della totalità esistenziale. E, soprattutto, nella ricerca della verità oggettiva e già definitiva della propria densità anche vocazionale. La precoce senilità, propria di tanta parte delle popolazioni adulte, fa così inevitabilmente capolino, malgrado la vivacità persino fatidicamente britannica, nel caso specifico. Questa innaturale deformazione nel processo di maturazione (che potrebbe durare anche tutta la vita in modo inconcludente) comincia a comunicare una tragicamente stucchevole e omologata vecchiaia già con retrogusto stanco che prefigura una dinamica patologicamente pre-segnata. Una resistenza quindi testardamente contraria a sfociare presto nella dimensione veramente adulta, anche se problematica. Il bell’imbusto giovanilistico inglese resisteva infatti all’incedere della vita. Come sempre in siffatti casi, la cronicità malata di una età terminata ma riprodotta artificialmente, induce soprattutto nelle ragazze di qualità, una reazione vitalmente intelligente e anticipatrice di una età da molto incipiente verso il suo inevitabile e futuro esito.
Tutto l’impianto ideologico della secolarizzazione materialista era così sostanziamente installato – almeno per Gabriella – dietro e tra le pieghe della sempre “incantevole” ludicità di Alan.
Nulla di più antierotico per una giovane come Gabriella, precoce all’autentica ricerca di sé e del senso unico nel suo implacabile percorso.
La strada verso Gilbert era così completamente aperta e in discesa!

 

 

 

Gabriella aveva anche attentamente ascoltato alcune opinioni espresse da Alan nelle conversazioni sul lavoro o nella caffetteria dell’agenzia. Così l’avevano pure convinta definitivamente nel giudizio ormai fermo per la sua relazione già monca col giovane inglese. Per esempio, ella aveva particolarmente seguito una sua conversazione estremamente laicista sulle feste religiose durante una pausa del lavoro.

  • Dovrebbero trasformare in ogni paese tutte le feste religiose o confessionali in laiche, neutre e senza alcun riferimento culturale se non di tipo civile e centrate sui nuovi diritti umani condivisi. Come quelli riconosciuti dall’ONU, affermava l’anglo-corteggiatore di Gabriella, alla stagista tedesca che l’ascoltava acrobaticamente tra il rapito e lo scettico.
  • Ma allora dove finiscono le identità specifiche dei popoli e delle tradizioni, gli rispose comunque la tedescotta di Hidelberg con logica ferrea tutta mitteleuropea.
  • Quelle, comprese le confessionali, possono pure rimanere, ma nel privato, nell’intimità personale. Sul piano pubblico, invece, lo spazio deve essere occupato solo da posizioni laiche…

Oppure, non erano sfuggite a Gabriella altrettante esternazioni “progressiste” come quella riguardante l’obiezione di coscienza nei confronti non solo dei medici o dei farmacisti.

  • Non è lecito – aveva ribadito sempre Alan – che l’obiezione di coscienza permetta al personale medico o delle farmacie di rifiutarsi di collaborare con la realizzazione di atti divenuti, negli ultimi decenni, legali come l’aborto o l’eutanasia: dei diritti legalizzati e ormai detti inalienabili…
  • E dove la mettiamo allora la libertà inviolabile della persona che – giust’appunto in coscienza – è impedita nel commettere atti che ritiene, malgrado le leggi approvate, assolutamente criminali?, obiettò la stagista questa volta spagnola.
  • È lo Stato, con la sua ragione, che deve essere superiore a tutto e contro tutti: contro la minoranza, se necessario!
  • Ma così, si avrebbe non solo una legge pur sempre e ancora “religiosa”, nel senso mistificato della vera religiosità (rientrata, con aggravante totalitaria, fatalmente dalla finestra del parlamento umano), replicò Concita. E, perdipiù, transumanista contro la libertà irriducibile anche individuale, ultimo baluardo della libertà tout court. Quante leggi sono state abolite – per esempio, quella sulla schiavitù – grazie alle innumerevoli obiezioni di coscienza individuali e resistenze al sopruso nella storia!

È in questi frangenti che Alan svicolava con una capriola sorridente dalla stretta dell’interlocutore implicitamente da lui considerato troppo “serioso”…
A Gabriella ciò bastava e avanzava: contro natura e contro le leggi creaturali e di Dio, non le era possibile nemmeno discutere, malgrado i sorrisi di alleggerimento simpatetico. In sovrappiù, niente le era più contrario alla sua naturalezza relazionale del razionalismo estetico e apparentemente logico di fuga. Invece nulla le era più favorevole di una sana e serena imprenditorialità personale intrinsecamente insubordinabile e non facilmente gabbabile.

 

 

 

Più spesso di quanto abitualmente si crede, anche i giovani imprenditori innovativi commettono errori clamorosi e incredibilmente sproporzionati rispetto alla sagacia della inventività delle loro creazioni produttive. Genéviève e Joseph, la giovanissima coppia di stagisti a Birmingham e a Palo Alto, sposi e protagonisti al megamatrimonio di Tervueren, ebbero una cocente e sconvolgente sorpresa. Anche l’altra coppia di sposi formata dalla sorella maggiore, professoressa Juliette e dal grafico Luca, furono, almeno all’inizio, turbati nello smarrimento e pure travolti. Gilbert, il quasi coetaneo del giovane sposo, andò a parlare alo stesso Joseph, con l’entusiasmo per lui consueto della grande scoperta professionale che lo aveva da non molto tempo catturato: il glocalismo!
Stravolto e senza parole, il protagonista principale della festa del giorno appena sposato, si sentì così annunciare tutto il discorso che, anche lui, ripeteva  ai suoi intimi da quasi un anno. Da quando, da Palo Alto ne aveva accennato per telefono a Genéviève, sua allora fidanzata stagista, gli estremi generali della cosa.
Solo che fin dal 1996, Luigi aveva letto in un articolo di un settimanale femminile (!) da lui trovato su un treno mentre visitava la sede della sua agenzia di Parigi, tutto il racconto sul glocalismo nato in California!
Gilbert spiegava così paradossalmente a Joseph la straordinaria “scoperta” da questi stesso fatta nel suo stage californiano. E che, a sua volta, era già stata incontrata e applicata da Luigi già da… quasi una ventina d’anni.
Questo era avvenuto nella stessa città di Bruxelles: così, il molto sognato progetto si stava realizzando all’insaputa di Joseph già da due decenni. Compresi gli stages da parte di studenti europei da vari paesi… Progetto divenuto anche e persino di Gilbert. Per trasferirsi, con Gabriella, a Londra allo scopo di fondarci una sede in franchising dell’agenzia già “glocalizzata” bruxellese tanto innovativa di Luigi.
Lo stesso suo progetto e, ormai, della sua appena sposata Genéviève!
A Jospeh sembrò improvvisamente che tutto il suo universo meticolosamente costruito si dissolvesse nel nulla e di schianto. Quasi incredulo e afono, non riusciva a realizzare l’incredibile e improvvisamente risibile illusione in cui si era totalmente coinvolto. Auto-illusione nella quale non solo aveva vissuto da più di una decina di mesi, ma in cui aveva coinvolto Genéviève, la di lei sorella Juliette con il suo attuale sposo Luca, oltre ai suoi genitori con i consuoceri e tutte le centinaia di invitati al festeggiamento in corso.
Rapidamente anche Gilbert si rese conto dell’involontario scandalo che aveva inconsapevolmente rivelato. Il primo dubbio che venne a Joseph riguardava la coppia di Luca e Juliette: malgrado gli accordi presi insieme alla sua fidanzata sorella di Juliette, fin dal loro incontro al ristorante, gli venne il sospetto che il grafico, con cui non si era più incontrato da qualche tempo, si fosse messo d’accordo con l’agenzia a cui faceva llusione Gilbert.
In qualche minuto, i quattro sposi e la coppia di quasi fidanzati ufficialmente si ritrovarono segretamente in disparte per commentare la clamorosa rivelazione.

  • Sapevo che la parola e il concetto di glocalizzazione – iniziò Joseph – aveva cominciato a girare su Internet da verso la metà degli anni 1990, ma che ci fosse nella mia città, a Bruxelles, una agenzia che ne avesse fatto il centro della sua strategia… Sono stato di una superficialità imperdonabile.
  • Come lo diremo ai nostri genitori che stanno tutti festeggiando la prossima fondazione della nuova agenzia?, aggiunse Juliette ben fissando il grafico Luca, suo sposo.
  • Meno male che non mi sono ancora licenziato dal mio lavoro, intervenne lui di rimando in modo poco lucido.
  • Ma non è che tu hai preso contatto, senza dirmi niente con l’impresa glocalizzata di cui mi ha parlato Gilbert?
  • Avevo giust’appunto l’idea di parlartene. Ma gli ultimi tempi convulsi per il bimatrimonio me ne hanno distratto, lo ammetto. Mi rendo conto adesso che invece avrei dovuto parlartene subito e prioritariamente. E forse anche prima. Non appena, in ogni caso, ho fatto l’incontro con Luigi (senza peraltro nulla decidere), avrei dovuto correre da te. Non mi giustifico, sono stato troppo frettolosamente superficiale…
  • E lo sapevano già in parecchi qui a Bruxelles. A dire il vero, sono io che avrei dovuto necessariamente mettere al corrente, in tutto questo vortice imprenditoriale e innovativo, il mio fidanzato Joseph. Quando? Già nell’occasione in cui Luca aveva incontrato Luigi per completare il glocalismo con l’aggiunta del grafismo e dei servizi internet a quelli di copywriting, traduzione e concezione pubblicitaria al suo gruppo di agenzie.
  • Certo – disse a questo punto Juliette – anch’io sono stata oca giuliva quanto Genéviève: avrei dovuto considerare a fondo il possibile disegno di Luca di inserirsi nella ditta di Luigi con lo stesso progetto di Joseph e di tutti noi. Il quale era fondamentalmente una impresa multilingue glocalizzata, ma ancora solo di servizi linguistici e non di grafismo e d’Internet.
    Lo confesso, ero chiusa professionalmente in quanto professoressa, nella visione di Luca come grafico da sempre. E Genéviève altrettanto chiusa nella visione simmetrica e tradizionale dei servizi di copywriting e traduzione ben separati da quelli globali che comprendono la visualizzazione grafica e quelli marketing. Così non abbiamo fatto nessun collegamento tra le cose. L’avremmo dovuto però vedere subito, tanto era evidente. Si è tutto sottovalutato in modo trascurato. Eravamo troppo distratte dai preparativi matrimoniali… Anche perché consideravo la cosa non antagonista e inconciliabile – in ogni caso – col nostro progetto. Oca sono io ma oca pure mia sorella minore, forse più.

Erano, in tal modo, tutti e sei sbigottiti e sconvolti da cotanta ottusa stupidizia mentre stavano celebrando la giornata della loro… intelligente innovatività!
Le tre coppie, immediatamente pensarono e cominciarono a esprimere la responsabilità nella cosa, a sua volta suprema, di Luigi. Il quale, evidentemente, sapeva tutto e di tutti, ma non aveva detto nulla a nessuno.

  • Non possiamo accusarlo di niente!, intervenne Luca. Sono anni che cerco di associarmi uno o più professionisti per mettermi in proprio. Ne ho viste delle belle.

Almeno tre volte, all’ultimo minuto, il mio progetto, i miei progetti, per un motivo o un altro, sono saltati miseramente. Fin quando tutto non si è concluso praticamente e non si è entrati in azione, alcun progetto si può definire ovviamente realizzato. Luigi ne avrà viste delle belle anche lui. E anche a bizzeffe, come tutti i veri imprenditori che amano comunicare i loro success story. Per cui è rimasto giustamente e prudentemente silenzioso. In ogni caso, siamo stati noi futili, sono stato certamente facilone ma non insincero, infedele, soprattutto verso Joseph.

  • Ma allora dov’è il problema? Praticamente non esiste! Se ci pensate bene – inteloquì calma, sorprendentemente calma, quasi sottovoce, ma ben perentoria Gabriella – si tratta solo di modificare leggermente i nostri progetti senza intaccare minimamente la sostanza essenziale dei nostri piani. Anzi. A rifletterci veramente è proprio il principio della glocalizzazione che ci suggerisce la soluzione al cosiddetto nostro problema.
  • Ma qui si tratta di due agenzie – intervenne Joseph – in concorrenza, anzi della mia futura e di Genéviève, che andrebbe in competizione con la vostra, con anche lo stesso posizionamento, rivolgendosi ai due ancora fidanzati. E questo con una impresa operativa già da molto tempo, addirittura più di tre decenni dalla sua fondazione!
  • Insisto – disse Gabriella –, la glocalizzazione, se ci pensate, elimina la concorrenza antagonista e fondativa se solo si è disposti – come noi siamo – a non rimanere indigeni e inamovibili.È l’entusiasmo per il progetto, geniale e indispensabile in sé, che ha indotto Joseph (ed anche Gilbert, come pure tutti noi) in “errore” e in errori di ingenuità. Esso, paradossalmente, è pure il cemento del “nostro” progetto che ci deve indurre a trovare, fondendo la soluzione o le soluzioni.
  • Per esempio?, chiese Luca.
  • Per esempio, tu puoi realizzare il tuo progetto con l’agenzia di Luigi, come head office, senza cambiare nulla. E Genéviève con Joseph dovranno solo installarsi, per esempio, a Colonia, a duecentoventi kilometri (meno che con Londra, senza attraversare la Manica!). Aprire cioè un’agenzia in master franchising con Luigi nel paese più riccho di Europa con possibilità di almeno una decina di future sedi tedesche, austriache e svizzere (tra Basilea e Zurigo). Per non parlare dei paesi della mittleuropa post-comunista che si stanno sviluppando e che hanno la Germania e non l’Inghilterra come riferimento culturale e professionale.
    Siamo già in un mondo policentrico, interconnesso e informatizzato!
    Tu Luca, siccome ogni agenzia di comunicazione multilingue glocalizzata dovrebbe essere dotata di una efficiente sezione grafica digitalizzata e di concezione marketing pure integrata, potresti occupartene rimanendo fondamentalmente anche qui a Bruxelles, come avevate previsto, con Juliette sempre insegnante e a revisione naïve Non avrete, non avremo!, che vantaggi dall’associazione nuova con l’apporto di Gilbert e mio!
  • Non diciamo nulla di tutto questo a nessuno – concluse provvisoriamente Joseph – ha ragione Gabriella: bisogna che prima modifichiamo accuratamente i nostri programmi per poi proporre a Luigi la migliore soluzione. Certamente ancora più allettante della precendente! La cosa ci servirà comunque di lezione.
  • A mio parere – intevenne ancora Genéviève – ne sarebbe anche lui felice: alla sua età e con la crisi economica in corso, si può solo sperare nell’espansione internazionale, quella glocalizzata per l’appunto con l’arrivo di nuove e giovani forze. Solo che toccherà a me imparare veramente pure la lingua dei boch: me la son ben meritata!
    Al liceo, era quella che mai ho amato. Infatti non l’ho veramente imparata contrariamente a Joseph che ne è diventato un provetto locutore: ha sempre prediletto la “loica” e la bellezza poetica tedesca…

Al che ritornarono molto rasserenati a danzare, come se tutti i loro problemi fossero stati già risolti e con soluzioni pure migliorate. E si avviarono, con il pensiero ricco che tutta la vita, in fondo, non è che un interminabile ballo.

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