È possibile oggi parlare cristianamente di economia senza situarsi al centro della parola “sussidiarietà”? Tutta la nostra epoca è ormai sottomessa alla maledizione dello statalismo come subordinazione totale della religiosità all’idolatria dello Stato onnipotente. Abitualmente si parla dello statalismo come di un problema limitato all’economico. Invece – è noto – si tratta della prevaricazione, detta neutra, della sedicente religione di Stato sulle leggi naturali e di Dio. Già papa Leone XIII, più di un secolo fa, aveva cominciato a sintetizzare nella sua enciclica “Rerum novarum” tutta la visione biblica ed evangelica dell’attività più universale dell’umanità: il lavoro con tutti i suoi attributi di creazione. Cioè millenni di produzione e di appropriazione della ricchezza e della bellezza. Esse costituiscono il nodo centrale della storia dell’uomo. Così, agli eterni princìpi dell’”aggiunta di valore” alla Creazione sempre in atto con la collaborazione centrale dell’uomo, questo papa della fine del diciannovesimo aveva introdotto la colossale esperienza di tutta la Tradizione della Chiesa. “Quadragesimo anno” e “Centesimus annus” sono stati poi due grandi interventi petrini che hanno celebrato – tra parecchi altri negli ultimi cento anni – questa entrata globale e ufficiale nella Dottrina Sociale della Chiesa (DSC). Fino a giungere alla pubblicazione, nel 2005 in Vaticano, del “Compendio” in molte lingue: un vero e proprio manuale con più di 500 pagine di tutta la dottrica sociale della Chiesa, sia della produzione che del consumo, da un punto di vista naturalmente cristiano: quindi dal punto di vista della sussidiarietà. Ogni papa, più ancora che ciascun cristiano, deve essere innovativo. Ma nella Tradizione!
Inutile però cercare nelle sei pagine (!) della comunicazione di Papa Bergoglio la parola o il concetto di sussidiarietà: tutto il discorso si limita a girare intorno al suo costante ritornello del pietismo. Vale a dire, nel qualcaso, condividere vagamente i profitti del lavoro… Tutto molto lontano dal problema posto dalla sussidiarietà, cioè al cuore del sistematico e invasivo intervento dello Stato che idealmente dovrebbe essere molto limitato : o anche teologicamente vietato se proposto in sostituzione di quello proprio alla Persona e alla sua società civile.
Che ci si ricordi allora della sublime ed energica espulsione dalla cattedrale di Milano dell’imperatore Teodosio da parte dell’immenso vescovo sant’Ambrogio. Il capo assoluto dell’Occidente e dell’Oriente (all’epoca ancora riuniti) cercava continuamente d’interferire nel potere spirituale del grandissimo prelato milanese. Questi, di origine tedesca (di Treviri) millecenquecento anni fa, giunse poi anche a convertire profondamente il potentissimo monarca che, in segno di grande pentimento, si ripresentò in basilica in ginocchio e senza corona.
Si tratta quindi dell’eterno problema dello statalismo e, allo stesso tempo, della sua sempre possibile soluzione, vale a dire almeno con il rispetto attivo da parte del potere statale verso quello spirituale di Dio. Non come dal tempo dell’illuminismo con il suo secolarismo europeo che cerca, invece, di relegare la religione esclusivamente nella sfera privata e intima. Cioè con l’orrore del laicismo militante!
In effetti, la pretesa statalista di far sparire la presenza del Dio vivente dalla vita pubblica nel mondo ha anche indotto tutte le conseguenze nefaste della nostra epoca. Compresa la colossale crisi economica contemporanea. La quale non finisce di perpetuarsi a causa della sua emblematica e assurda denatalità contro natura, giunta a diventare causa permanente e incosciente di se stessa. È il crollo della domanda interna ai paesi soprattutto occidentali, quella dei circa due miliardi di non nati negli ultimi 60 anni con il beneplacito attivo e complice degli Stati laicisti. È questo crollo, quindi, che ingenera l’essenziale di detta crisi non solo economica. Se non si dispone chiaramente di questa descrizione analitica del fenomeno principale nella nostra epoca, vale a dire lo statalismo operativo, combattivo e intervenzionista, non si può con pertinenza parlare cristianamente di economia. Né, va da sé, di Comunione. Il cristianesimo non potrà mai accettare la subordinazione allo Stato inevitabilmente nichilista. Salvo scegliere di morire pubblicamente e umilmente sulla Croce secondo la sequela di Gesù. Ma soprattutto per resuscitare nella Pasqua per la redenzione di tutti i peccati del mondo.
Con una Tradizione millenaria di resistenza all’oppressione statalista in tutti i tempi, dopo che si è definito il vario ed eterno contesto dell’indipendenza globale del messaggio cristiano, non si può tranquillamente predicare il riduzionismo subordinato e poco significativo della cosiddetta “idolatria del denaro” o della “Comunione dei profitti”. Prima di tutto per il fatto che non è il denaro ma il suo utilizzo ad essere suscettibile d’idolatria. E in seguito, le modalità di questo sedicente condividere oggi i profitti appaiono surreali a causa del medesimo statalismo che li ha ridotti circa allo zero con le sue incombenti e devastanti tasse a carico, in primo luogo, delle imprese. Soprattutto per la quasi totalità delle piccole e medie imprese che hanno raggiunto, come vittime, valori di totale confisca. La vera e libera Carità cristiana di solidarietà non è così più veramente possibile. L’economia, infatti, non è assolutamente un affare di competenza dello Stato ma della Persona e di tutte le sue articolazioni sociali e naturali. L’irrealismo delle argomentazioni subordinate silenziosamente allo statalismo, portano fatalmente al dilettantismo e al pauperismo più tragici e anticristiani. In effetti lo statalismo è sempre e in sovrappiù parassitario, a causa del suo fatale gigantismo sistematicamente improduttivo e corruttivo. Bisogna privilegiare l’intelligenza dell’uomo attivo e non il mostro dello Stato apparentemente inerte e anonimo. Così, prendere a criterio del “bene comune” les tasse – come affermato e ribadito nel suddetto convegno dei Focolarini – e non la libera imprenditorialità feconda dei lavoratori (subordinati o dirigenti che siano, oppure imprenditori) porta inevitabilmente all’eresia.
Anche l’articolo del quotidiano italiano “Avvenire”, organo dei vescovi, il quale ha commentato l’importante discorso del Papa argentino e l’avvenimento culturale di detto movimento storico, non ha assolutamente percepito il sacrosanto dovere di un atteggiamento critico rispetto a questo nuovo e riconfermato pronunciamento magisteriale, in ogni caso eterodosso. Per la precisione, quello del potere petrino che privilegia – come spesso e sempre più abitualmente – il sedicente pietismo piuttosto che il rigore dottrinario della grande Tradizione. Papa Francesco, al posto di ricordare il famoso “Non possumus” come impossibilità di cambiare le leggi di Dio e della Sua Chiesa, ha in effetti scelto e confermato di sostenere – anche con funzioni organizzative e ufficiali in Vaticano – ideologie condannate teologicamente dalla sapienza immutabile di precedenti e molto rigorosi papi. Per esempio, egli supporta – di fatto – le ideologie sudamericane della “teologia della rivoluzione” (giudicate definitivamente anticristiane da papa san Giovanni Paolo II) al posto di promuovere le linee anche ontologiche dell’esperto cattolicissimo statunitense Michael Novak. Questi, in unità e sotto la guida del santo papa polacco per più di venticinque anni, aveva collaborato a costruire la rigorosa politica economica antimarxista di tutta la Chiesa. E questo, soprattutto a partire dalla DSC condotta dall’attuale e attivamente dimenticato arcivescovo di Trieste, Crepaldi, numero uno della dottrina economica e sociale della cattolicità (purtroppo confinata solo al suo ruolo ufficiale).
La soppressione del senso e della parola “sussidiarietà”, ormai come per moltissimi altri concetti cristiani inghiottiti dall’oblìo della sedicente riforma bergogliana, strisciante e cattoprotestante, ha seguito la grave tendenza sempre più subordinata e inginocchiata allo statalismo. E alla falsa papolatria che lo stesso Papa Francesco aveva precedentemente ben attaccato come grave peccato.
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