Esistono quattro categorie di lavoratori: gli imprenditori fondatori di nuovissime attività, gli autonomi artigiani, i manager di grandi o medie imprese e gli impiegati o operai.
Si possono ritrovare queste quattro categorie in ogni campo di attività, che siano esse economiche ma anche culturali, artistiche oppure artigianali, religiose o altro. Ma la suddivisione più importante separa sempre nettamente la prima categoria – quella degli imprenditori fondatori – dalle altre tre. A meno che la seconda categogoria, degli autonomi artigiani, non abbia imprese con anche impiegati e operai. Questa distinzione, radicale nei fatti, è molto attutita nella nostra cultura imprenditoriale per diverse ragioni che si potrebbero sommariamente già definire di “democraticismo funzionale”. Paradossalmente questa attenuazione è diffusa, giustamente da sempre, dagli stessi lavoratori-imprenditori. Rispetto al lavoro, vale a dire la dimensione umana più universale che configura la cooperazione permanente tra la creatura-uomo e il Creatore-Dio, si presentano in realtà tre attitudini statutarie: i fondatori di attività innovative, i lavoratori irriducibili nella loro autonomia di tipo artigianale o professionale et, infine, tutti gli altri che sono definiti dal contratto detto di “subordinazione” inscritto anche nell’intestazione del documento firmato con gli imprenditori che li hanno assunti. I quali possono anche essere costituiti dai detti piccoli autonomi-artigiani molto massivamente diffusi: la maggior parte delle imprese in tutto l’Occidente sono, in effetti, piccole o piccolissime imprese. Così è questo statuto di subordinazione all’imprenditore che costituisce la frontiera reale che separa e unisce il campo del lavoro: i lavoratori subordinati sono del resto gli stessi – bisogna ricordarlo – che hanno alimentato, particolarmente negli ultimi due o tre secoli detti dell’industrializzazione, la figura ideologica coagulata nel marxismo nell’orribile lotta di classe. Per l’essenziale, così, due sono in definitiva i campi dove si situano gli uomini-lavoratori della nostra era (ontologicamente, anche di ogni epoca): i veri imprenditori e i sostanzialmente e degnamente subordinati.
Nelle attività umane e dopo l’esito delle vocazioni professionali di ognuno, ci si può solo situare nell’uno o nell’altro di questi due posizionamenti. I quali sono perfettamente complementari e confluenti alla realizzazione dello scopo fodamentale delle attività universali nel lavoro: il perseguimento del valore aggiunto al Valore infinito e già inestimabile della Creazione.
Attivare e fare lavorare anche gli altri, soprattutto nella nostra era di accidia acuta, sedicente ludica e del rifiuto dello sforzo, è l’attività più dura.
È per questa ragione che gli imprenditori non fanno che vantare, anche esageratamente e demagogicamente, il lavoro dei loro subordinati sapendoli così spesso culturalmente e strutturalmente in opposizione nei loro interessi molto, troppo, personali, dunque di “classe”. È in questo atteggiamentopiù prudente che si può denominare a priori difensivamente di democraticismo funzionale il fatto che gli imprenditori debbano costantemente anche falsificare parzialmente i meriti e i risultati globali delle attività che generano. I sindacati sono in effetti, diciamo così, l’espressione organizzatrice, almeno da un mezzo secolo di questa costante lotta ben autenticata di classe, strategicamente antagonista al bene comune, anche da un punto di vista della recente evidenza storica. Agli imprenditori, peraltro, si può tranquillamente rimproverare di aver ceduto gravemente alla facile demagogia e soprattutto di avere abbandonato le imprese ad una visione gestionaria da manager, dimenticando che quest’ultimi , essendo sempre in ultima analisi subordinati, sono dunque soggetti a concepire il lavoro, anch’essi, a loro profitto esclusivo.
Questa cultura privatistica dell’impresa, oltre ad impoverirla al limite (e spesso anche al di là) del fallimento, diventata patrimonio fondante l’universo culturale almeno in gran parte dei giornalisti e generalmente dei cattolici, già catturati dall’invadente pensiero unico. Né gli uni né gli altri non hanno mai denunciato, per esempio, uno degli scandali statalisti inauditi della nostra epoca consistente nel fatto insostenibile anche economicamente che le pensioni (generalmente fannullone!) sono pagate con i contributi dei giovani. E che l’età media del pensionamento in Europa (comprese le prepensioni) è di 56 anni e tre o quattro mesi! A 72 anni lavoro felicemente sempre e non sono il solo a pensare di farlo fino all’ultimo respiro, diminuendo – va da sé – progressivamente e quantitativamente le mie attività, salute permettendo e naturalmente ringraziando il Cielo di tanta grazia! Peraltro, essendo i giovani per quasi la metà disoccupati – in sopvrappiù per la stessa ragione, pricipalmente – non possono nemmeno pagare i loro ingiusti contributi (non ne avranno comunque il frutto!)…
Il mio apparente giro alla larga, molto alla larga in queste argomentazioni, peraltro ancora incomplete, è per cercare d’inquadrare il clima culturale nel quale sono indirizzate critiche innumerevoli agli iniziatori di detto partito cattolico in Italia. Il quale è indispensabile anche per gli altri paesi europei, ancora più devastati dell’Italia, e necessario massimamente al parlamento dell’Unione europea (il partito PPE…). Senza considerare che l’Italia costituisce una referenza internazionale nell’esemplarità del cristianesimo universale, e non il “fanalino di coda” dei paesi cosiddetti moderni. Come ripetono fino alla nausea i laicisti europei. Giungendo, anche illegalmente, a spingere gli organismi ufficiali dell’UE a raccomandare ufficialmente e imperativamente all’Italia di adottare le barbare leggi sulla Famiglia di cui non dispongono alcun titolo e alcun mandato!
La panoplia delle critiche ai due principali attori e protagonisti della questione, (Adinolfi e Amato) per questa iniziativa di fondare un partito cattolico, è talmente vasta che si può ritrovarci tutte le idiozie o quasi che si incontrano abitualmente sui social network. Mischiati, come spesso, agli aspetti molto positivi che Internet ha introdotto nella nostra modernità. Si ritrovano in questa marea di obiezioni, motivazioni in sé anche valide, vale a dire tutte quelle appartenenti alla tipologia dei subordinati che indirizzano ben volentieri e puntualmente ai loro subordinatori e imprenditori. Salvo non porre la questione fondamentale e imprenditoriale dell’iniziativa e della sua necessità storica non più rinviabile. E naturalmente di prendere rischi, degli immancabili e necessari rischi! L’imprenditore è quello che lo fa. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole: è sempre stato così. Soprattutto dopo il ben riconosciuto attuale tradimento della maggior parte dei cattolici presenti senza alcuna utilità (al contrario!) nel parlamento italiano (degli altri importanti paesi europei, meglio qui non parlare).
Certo, un ritardo di più di un quarto di secolo per la mancanza di una rappresentanza cristiana nella politica, non può essere colmata da una anticipazione forse, o certamente, troppo frettolosa, di preparazione maggiormente democratica e formalmente “ortodossa”. Ma le circostanze e le urgenze dell’agenda politica generale hanno anche le loro inderogabili esigenze… In effetti ciò che si può veramente rimproverare a questi due iniziatori (veri imprenditori operatori culturali) è di non essere stati abbastanza… “imprenditori politici”. Nel senso di non aver sufficientemente associato le truppe mobilizzate a questa fondazione capitale: il popolo del Family Day. Cioè quello che è stato raccolto durante i due anni e più di preparazione e di lancio del movimento che è stato chiamato della “Famiglia naturale” costituita da un uomo e da una donna (da un padre e una madre), e non da una coppia homosessuale o da un mostro omoparentale!
Bisogna considerare che questi due fondatori politici sono non a caso gli stessi che nei due anni trascorsi hanno prodotto quasi da soli i più di 500 incontri-conferenze (!) nelle città di tutta Italia; hanno dato vita a un quotidiano cattolico con soldi principalmente personali (!); hanno pubblicato libri tematici sui contenuti in gran parte sconociuti. E hanno anche costruito o ingenerato le reti, sempre quasi da soli, che hanno potuto realizzare il “miracolo” delle due grandi manifestazioni a Roma che hanno meravigliato il mondo intero… E ognuno sa, o dovrebbe sapere, che rischiare personalmente vuol dire mettere in gioco e in pericolo la carriera professionale e pure le proprie relazioni familiali… Del resto, con numerosi articoli, i due iniziatori stanno già rispondendo alle critiche ricevute. Nessuno dei critici attuali aveva però reclamato per questa iniziativa imprenditoriale quasi inimmaginabile, come tutte le iniziative del genere al loro inizio. Ce n’erano che già accusavano lo scetticismo. E questo, ben sapendo che ogni movimento sociale non può che risolvere, presto e non troppo tardi, il problema sacrosanto che intrinsecamente pone la sua esistenza: la presa del potere politico. Sempre!
Cosa fare ora? Farlo come in altre occasioni, molto semplicemente! Ognuno deve onestamente riconoscere il suo posizionamento e fasciare le piccole ferite che ogni iniziativa imprenditoriale strutturalmente e sistematicamente produce. Compresi gli errori, forse anche inevitabili, in ogni caso perdonabili, che i fondatori producono e che si possono sempre rimediare oportunamente. Pure da parte loro, beninteso: siamo nel campo delle contradizioni e non degli antagonismi.
È l’anno della Misericordia, fratelli miei!
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