L’Italia e il mondo intellettuale dell’intero pianeta stanno celebrando Eco, il professore di semiotica e romanziere tra i best seller in tutti i continenti: il suo libro Il nome della rosa, è stato pubblicato in non meno di una cinquantina di lingue e reso veramente popolare con un film eponimo.
Verso il 1990, all’apice del suo successo, è giunto a Bruxelles e, eccezionalmente, con una sola conferenza in un francese però impeccabile, ha riempito il più grande teatro del Belgio (il Beaux Arts) sotto l’ammirazione incondizionata del pubblico come della critica dei grandi media. E questo dopo aver ricevuto una delle numerose lauree honoris causa alla gloriosa università fiamminga di Leuven.
Avevo un prete milanese come amico, Bruno Ducoli, decano dei missionari in Belgio che mi aveva infilato una pulce nell’orecchio con una piccola critica, peraltro molto generale. Essa si è rivelata come una miccia accesa che ha poi fatto esplodere le molte polveri: “ Eco è un furbetto, molto astuto e gran intellettuale alla page “, diceva. Io, che non mi perdevo nessuna delle sue “Bustine di Minerva” che pubblicava ne “L’Espresso”, settimanale radical-sinistroso anticlericale, et che avevo letto molto ammirato il suo primo romanzo già una decina di anni prima, ero rimasto abbastanza colpito da questa boutade. Come se me l’aspettassi. Essa ha continuato a trottarmi in testa. Ero anche andato ad una conferenza stampa che Eco aveva tenuto in occasione della sua venuta nella capitale che veniva definita dell’Europa. Contrariamente alle mie intenzioni, avevo deciso ascoltandolo dal vivo di non intervenire. Per non manifestare pubblicamente la mia sostanziale ammirazione, anche se già alquanto critica e vacillante (all’epoca, forse anche pusillanime).
Cos’era in effetti codesto dubbio nei confronti di questo filosofo detto moderno che riuniva la alta cultura con quella anche molto bassa e che aveva modernizzato, non solo in Italia, la comunicazione contemporanea? Ho avuto dopo, molte occasioni di ben chiarirmi le idee sulla cosa. Eco, dopo una prima giovinezza passata come attivo e dirigente dell’Azione Cattolica, l’organizzazione tradizionale parrocchiale che gli conferì senza dubbio un gusto imperituro per la dimensione totalizzante dell’esistenza, perse – come si dice – la fede. Ma l’amore acquisito per la conoscenza, soprattutto la modernità, lo portò ad una tesi universitaria a Torino sul più grande e universale teologo del Medio Evo, Tommaso D’Aquino. Se aveva potuto evitare di cadere nel modernismo più banale e incolto, non si salvò dal relativismo e dallo storicismo marxiani, se non marxisti. Tutto questo arsenale teoretico era alla moda nella seconda metà del secolo scorso. Questa scelta ideologica lo condusse paradossalmente a una visione riduttivista e conformista, anche se questi due aggettivi possono apparire inadeguati e antagonisti col suo avanguardismo pure estetico, molto messo in evidenza. In realtà, tutte queste idee tra le più “ardite” – con il fallimento economico e culturale del materialismo marxista a Mosca come a Berlino o a Pechino – si sono rivelate universalmente e per spontanea confessione, nel 1989, come reazionarie ovvero pure insignificanti. Tuttavia il suo miscuglio personale di cultura classica e di scetticismo ipermodernista immersi nel suo immanentismo agnostico (sostanziato dai suoi studi avanzati in semiologia comportamentale), ha affascinato il sedicente progressismo del mondo internazionale. Sempre anche pretenziosamente rivoluzionario. Ancora oggi questo prestigio dai contenuti molto ambigui e infondati ma folgoranti nella loro espressività, continua a soggiogare – peraltro in modo irrazionale – la grande maggioranza dell’intellighenzia. Questa si è autoaccreditata in supplemento anche sul piano sociale, in piena esclusività. Così, forte del suo pregiudizio laicista molto diffuso, il nostro notevole semiologo è anche giunto a dichiarare il divorzio intrinseco tra la ragione e la fede. E a giurare anche sull’incompatibilità tra cultura e destra politica. Sciocchezze risibili più che vergognose!
In tal modo Umberto Eco è diventato l’intellettuale che garantisce intrinsecamente la transizione dall’ideologia marxista (storicamente assassina quanto, se non più, il nazi-fascismo) a quella ancor più inquietante nichilista e relativista dei nostri giorni. Una continuità spaventosa.
Ma, per lui, sempre pubblicamente “con classe”!
Non finirò mai di ringraziare tutti i miei santi di avermi permesso di scegliere di diventare imprenditore, piccolo imprenditore. Così ho potuto evitare con meno difficoltà di essere catturato dall’ideologia del nichilismo riduzionista. Essere riduzionista, per un imprenditore significa molto rapidamente procurarsi il proprio fallimento. E pure non è possibile, per lo stesso imprenditore, essere veramente e strutturalmente nichilista. Il rapporto imprenditoriale con la realtà – vale a dire l’impresa produttiva al quotidiano, i rapporti con gli impiegati e collaboratori, i fornitori da controllare e pagare, i concorrenti da ammirare e superare, i clienti da rispettare e sedurre nell’innovazione continua, la progettualità sempre da sviluppare nell’aumento (attraverso la collaborazione intelligentemente subordinata con Dio) del valore aggiunto nella grandiosa e incommensurabile Creazione… – non permette intrinsecamente di essere veramente nichilista e riduzionista. Gli intellettuali invece, quasi inevitabilmente, diventano spesso atei scettici se non pure nichilisti (finalmente oggi è la stessa cosa!). Gli intellettuali, in effetti, possono molto facilmente stigmatizzare e condannare una era storica nella sua totalità, come l’ha fatto Eco, alla maniera dell’antistorico e ideologo dell’illuminismo, Voltaire. Il nostro scrittore, ora appena giunto alla sua da lui non riconosciuta eternità, pertanto conosceva la materia. Egli ha pure definito “oscurantista e barbaro” tutto il Medio Evo, in conformità al pregiudizio anche dominante. Invece è stato largamente dimostrato, per esempio da grandi ricercaori francesi (Jacques Le Goff e Régine Pernoud) che si trattava di una epoca nella quale tutte le più grandi istituzioni culturali e sociali sono state fondate per la realizzazione dell’Europa eternamente identitaria. E per la preparazione più che pratica del grande Rinascimento operativo!
In ogni caso la vera e profonda intelligenza, quella propria dell’”intelligere” dei Latini, esige di penetrare veramente nel reale allo scopo di riconoscerlo e di poterlo ingrandire. E questo, nel suo destino ontologico e vocazionale, fugge come la peste la falsificazione fatale da parte dell’ideologia.
Si tratta dunque di vera e completa gloria quella di Umbeto Eco?
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