Ho appena finito di leggere, dell’eccelso cardinale italiano Giacomo Biffi, il meraviglioso libro “Contro maestro ciliegia” Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, l’universale best seller dello scrittore visionario toscano Collodi. Si tratta di un vero e proprio trattato pratico di teologia innestato a partire da una storia conosciuta mondialmente, non solo dai piccini per le meravigliose avventure del piccolo burattino, ma ovviamente anche dalla quasi totalità degli adulti per oscuri e anche popolari motivi. Questi attengono, come dice l’autore realmente religioso del libro, “alla memoria di tutti e al senso della vita, tutta dell’esistenza”. Ho riscoperto così la profonda ragione del successo planetario della storia del vivente burattino di legno ricordandomi dell’analoga lettura che avevo avuto la fortuna di aver fatto, all’inizio degli anni ’70, allorquando mi sono imbattuto nel libro dell’immenso scrittore cristiano spagnolo Miguel Unamuno: La vita di Don Chisciotte e di Sancio Panza. L’avevo trovato in una vecchia edizione della BUR che ricordo d’aver divorato in un paio di giorni.
L’analogia tra i due libri, che costituiscono forse i due fondamentali nella mia formazione spirituale e intellettuale da più di quarant’anni, sta nel fatto che si tratta di due grandissimi autori che hanno scritto quanto di più la loro profondissima visione del mondo globale poteva produrre. L’originalità delle loro due opere consiste nell’essersi chinati su due storie di successo universali, considerate abitualmente “leggere”, superficialmente “avventurose” e di pura “fantasia”. In realtà, queste due narrazioni popolarissime dall’apparente esteriorità e frivolezza immaginativa, quella di Cervantes e quella dell’ottocentesco Collodi tre secoli dopo, costituiscono “la radice eterna del nostro essere” (come lo scrive l’immenso ex-arcivescovo di Bologna, ma di formazione lombarda, ambrosiana e milanese, Giacomo Biffi). Leggendo i due libri di commento, si evince come il successo narrativo internazionale dei due capolavori, Don Chisciotte e Pinocchio, è comprensibile e giustificato solo dalla pregnanza e dall’universalità culturale delle due storie. Esse descrivono, in metafore sublimi e semplici, tutta la complessità, anche trascendente, dell’esistenza umana. Al burattino discolo e ribelle al proprio padre putativo Geppetto, corrisponde l’obbedienza anche estrema, ingiustamente considerata folle, di Chisciotte, uomo maturo e profondamente sapiente. Le due vite sono così avvincenti perché ripercorrono i meandri e i percorsi diretti cui l’uomo è perennemente e inestinguibilmente attratto.
Avevo già letto un breve saggio su Pinocchio del giussaniano Franco Nembrini, il grande genio divulgatore di Dante nel nostro tempo (compresa l’influenza decisiva e iniziale su Benigni), “riletto” alla maniera del Biffi, gigantesco maestro uscito dallo stesso seminario di Venegono come l’indimenticabile Luigi Giussani, ora in via di canonizzazione. La descrizione del burattino di legno con vocazione universale a diventare uomo nel suo ritorno al padre cui, lui stesso, si stancherà di rivoltarsi dissennatamente, è assolutamente conforme alla narrazione – capitolo per capitolo rispetto al libro di riferimento, come per Unamuno al riguardo di quello di Cervantes – della metafora umana transvalutata dal cardinale lombardo.
Come poter meravigliosamente parlare meglio dell’uomo detto moderno che, narciso e falsamente libero, si ribella al suo Creatore per perdersi nel labirinto della vita agnostica e senza senso, se non con il commento approfondito delle indisciplinate e disubbidienti avventure di un Pinocchio?
Era successo già all’inizio del novecento a Miguel Unamuno, con i suoi commenti alle avventure del creatore di Dulcinea però alle prese dell’amore indissolubile, eterno e apparentemente insensato per la contadina trasfigurata dalla passione razionale di Don Chisciotte! Lo stesso concetto cristiano di amore e di relazionalità alla Persona è alla base del rapporto, letterariamente sviscerato dal genio narrativo dei due scrittori (realmente teologi!), che hanno già segnato indelebilmente la storia culturale europea.
È questo rapporto col Creatore, col il Padre, a partire dal riconoscersi creature, evidentemente create e non autocreate, che costituisce il punto cruciale dei due libri di commento. Essi, molto lontani nel tempo e dal punto di vista culturale (Cervantes era anche stato fatto schiavo dagli islamisti del ‘500), mettono al centro l’attuale concezione dell’uomo nichilista che nega Dio e la sua dipendenza trascendente.
Il grande ritorno al padre di Pinocchio, per diventare uomo, e l’obbedienza mondanamente “folle” di Don Chisciotte, per continuare ad esserlo, sono i leit motiv dei due libri che ne fanno il pregio centrale e rarissimo nella storia della letteratura e della cultura anche salvifica.
Naturalmente, l’eccesso ne è la regola costante: la soterologia religiosa e culturale, vale a dire la preoccupazione di salvare l’uomo e la sua esistenza globale, non può fondarsi sulle idee scontate, mediocri e abituali. I principi cristiani sono tali che, fondandosi sulla morte di Dio inchiodato sull’infame croce condannata dalla piazza, in modo politically correct, meschino e ingiusto, non possono essere che giudicati apparentemente folli.
Un pezzo di legno forgiato burattino che diventa uomo nel suo rapporto col Padre, e un cavaliere chisciottesco che combatte contro i mulini a vento, non possono essere, soprattutto oggi, che inusuali e odiosamente “improponibili”. E pertanto, l’eroe archetipico anche moderno rimane pur sempre il piccolo olandese che rimane eroicamente immobile, col ditino infilato nel buchetto della grande diga, per evitare la catastrofe del suo crollo con l’allagamento irrimediabile del Paese.
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